Barabàn su Strumenti&Musica

I monelli del folk.
Aurelio Citelli racconta i Barabàn

di Claudia Bonadonna

Una storia che parte da lontanissimo, dal 1982. Una ricerca “sul campo” che diventa recupero della tradizione (soprattutto quella contadina dell’Italia settentrionale), un’attitudine alla commistione che fa mescolare strumenti classici e moderne tecnologie digitali, canti di protesta e danze carnevalesche, vecchi dialetti e letteratura contemporanea. Aurelio Citelli racconta i Barabàn.

Barabàn, ovvero “vecchio, monello, sovversivo, ribelle, vagabondo”. Mi sembra che già la scelta del nome sia una sorta di dichiarazione di intenti, è così? Come nascono i Barabàn? 

È così. Fin dall’esordio abbiamo preferito essere un po’ fuori dal coro, monelli, Barabba, proprio come i milanesi della rivolta del 6 febbraio 1853. Li chiamavano Barabàn. Ma questo nome, che deriva dall’aramaico “bar aba”, il figlio del maestro, significa anche molto altro: è il nome di un ballo dell’Appennino bolognese, di un rito pasquale delle colline pavesi, del diavolo, del temporale, di bellissime musiche ebraiche. E, non meno importante, è il cognome di tante famiglie europee. Una sera a Nancy, in Francia, prima di un concerto, alcuni giovani si presentarono al palco con la carta d’identità in mano chiedendoci: “Perché vi chiamate come noi?”. Erano i nipoti di ebrei polacchi emigrati in Francia, fortunatamente sopravvissuti all’olocausto.
Quando siamo nati – tutto cominciò nell’autunno del 1982, a Milano, nella sede che era stata di Re Nudo (1) – ci eravamo posti l’obiettivo di conoscere e ricostruire il panorama sonoro della regione lombarda: studiare le ballate, ricostruire e rimettere in funzione la Musa (la cornamusa delle Quattro province abbandonata da mezzo secolo), conoscere le danze del carnevale di Ponte Caffaro e Bagolino, i canti della Merla della pianura cremonese, i balli da Piffero. C’era l’urgenza di registrare i canti pasquali dell’Appennino, le suonate degli ultimi violinisti dell’Oltrepò, le musiche natalizie del Milanese. Un lavoro di ricerca che Giuliano Grasso (violino) ed io, dopo aver raccolto le musiche degli “altri” in Irlanda, Bretagna e Berry, abbiamo intrapreso qui, nelle valli bresciane, nelle Quattro province, in Valtellina ma anche nel grigio e contaminato – sotto il profilo culturale e non solo – hinterland milanese. Con noi, a fondare il gruppo, c’erano Vincenzo Caglioti (organetto diatonico) e il poliedrico Guido Montaldo (piffero, flauti, voce). E il nostro primo 33 giri, Musa di pelle, pinfio di legno nero, del 1984, si apriva proprio con una suite natalizia milanese, la Piva, da noi registrata a Rosate (MI). Poi, a partire dal secondo LP Il valzer dei disertori, sono entrate nel nostro sentire anche tematiche come le guerre, l’antisemitismo, la violenza sulle donne, l’emigrazione, i passaggi clandestini.

Mi piace molto l’idea che vi definiate non solo musicisti ma anche ricercatori, mi spiegate quest’attitudine?

La ricerca etnomusicale è stata fondamentale per assimilare i codici e i meccanismi della musica popolare, e per costruire un repertorio originale. Ma è stata anche una scuola di vita. L’indagine su campo, come si diceva con una bella espressione quasi contadina, non permette solo di conoscere repertori e stili di ex minatori, violinisti, mondine, sarte e camionisti; consente di entrare nel loro mondo, nelle loro case, nelle loro vite. È un lavoro che ci hanno trasmesso figure come Roberto Leydi e Bruno Pianta che non si sono occupati solo dell’estetica delle musiche di tradizione ma hanno cercato di svelare il significato di un ballo di morte e resurrezione come la Povera donna o di far emergere le frustrazioni della donna contenute in una ninna nanna. Hanno dato, cioè, un’impronta sociale alla ricerca etnomusicologica. Sulle loro tracce, ci siamo occupati anche di repertori marginali, o apparentemente marginali, snobbati, specie dal cosiddetto “mondo folk”: le musiche natalizie delle bandelle, i canti rituali dell’Epifania, le suonate per campane, il repertorio delle mondariso lomelline, i canti rituali sacri e profani dell’Appennino. Accanto a ciò vi è stato, ad opera di Giuliano Grasso, un grande lavoro di ricognizione e studio dei fondi musicali conservati negli archivi pubblici e privati e un’opera di valorizzazione del repertorio violinistico. Nel nostro piccolo, ci siamo sforzati di rinnovare i metodi d’indagine e le modalità di documentazione utilizzando tutti gli strumenti a disposizione: la registrazione di musiche e memorie ma anche il video, la fotografia, la raccolta di partiture e perfino di filmini 8mm.

Nella vostra lunghissima storia c’è una grande commistioni di fonti e di generi: dalla tradizione musicale del nord Italia a quella yiddish, dai canti arcaici dell’Appennino allo swing, addirittura. Come riuscite a tenere insieme tutto? E come trovate le vostre ispirazioni?

Da anni lavoriamo a spettacoli e progetti discografici tematici: le musiche dell’arco Alpino, la donna, i suoni della valle del Po, la Grande Guerra, il Natale, l’Olocausto. Cerchiamo ispirazione nei repertori di tradizione orale, nei materiali che noi ed altri hanno raccolto: senza considerarli una gabbia, un mondo chiuso, ma un’opportunità, un modo diverso per fare musica, per comunicare, per emozionare e far divertire. Cerchiamo di seguire un filo coerente, non raramente avvalendoci della poetica e dell’opera di grandi artisti. Che insegnano sempre tanto.

Ho notato un certo amore per De André (penso alla vostra ricorrente partecipazione al progetto Canti Randagi). Com’è stato confrontarsi col mito e col lascito del grande Faber?

Impegnativo. Ci siamo sempre avvicinati alla sua poesia con grande responsabilità, in punta di piedi ma anche osando in libertà. De André è certamente l’autore che sentiamo più vicino. Oltre alla profondità della sua poetica, ci interessava il suo amore per le culture e le lingue altre, l’uso di sonorità popolari. Fu Andrea Del Favero a coinvolgerci in Canti randagi 1 in cui proponemmo in lingua dialettale Canzone del Maggio: l’avevamo scelta perché, da milanesi, ci sembrava quella più vicina al nostro sentire. Per anni è stata il nostro cavallo di battaglia. Ricordo che alla presentazione del disco che si tenne al Teatro Manzoni di Monza, quando Faber notò sulla porta dei camerini la scaletta dei gruppi che si dovevano esibire quella sera, alla vista di Barabàn, che aprivano la serata, disse: “Barabàn, loro fanno Canzone del Maggio”. Di ogni gruppo conosceva il brano reinterpretato. Canti randagi è stata un’esperienza interessante: grazie a quel progetto abbiamo girato l’Italia con artisti del calibro di Elena Ledda e Peppe Barra, ci siamo confrontati con un pubblico vasto. Per Canti randagi 2 ci chiesero, ancora, di tradurre un brano in dialetto lombardo. L’operazione ci sembrò un po’ déjà-vu, passatista. Anche perché quella lingua è inesistente, buona solo per la propaganda razzista. Così, da monelli, abbiamo scelto Fiume Sand Creek attualizzandola parlando di donne, uomini e bambini che muoiono nel Mediterraneo, e mescolando strofe in dialetto milanese a versi in albanese, arabo, esperanto, a termini tratti dal berbero, dal genovese e dalla poetica di Franco Loi.

La commistione con la letteratura non è inedita per voi, anche Francesco Biamonti e Franco Loi sono fonti dichiarate nel vostro album Terre di passo. Com’è nato quest’incontro?

Di Franco Loi abbiamo sempre amato la poetica, la cultura, il suo vissuto nella Milano popolare del Casoretto, dei cortili, delle balere con le luci colorate, dello swing. Ci colpirono molto le sue memorie sulla guerra, le bombe, la visione a Piazzale Loreto dei partigiani uccisi tra i quali c’era un suo maestro. È leggendo le pagine de L’ Angel sulla Festa della Fraternità che si tenne a Milano nel 1945 che ho composto lo swing 14 luglio rievocando nell’incipit Sola me ne vo per la città, una canzone straordinaria, simbolo del ritrovarsi dopo gli anni della catastrofe. Ricordo con piacere i pomeriggi passati a casa di Franco Loi: ascoltavamo i demo delle sue liriche che musicavo (Italia, I sares, La set), discutevamo sui titoli da dare ai brani, correggeva i miei errori di dizione. Poi si parlava di tutto, di politica, poesia, dei Navigli, Milano, New York dove, mi scrisse una volta, gli sarebbe piaciuto tornare con Barabàn. Idee e suggestioni ci sono arrivate anche dalle pagine dello scrittore Francesco Biamonti, dal suo Vento largo, dai racconti delle terre di confine tra Italia e Francia, i passaggi clandestini sui sentieri del Grammondo, gli ulivi, il Maestrale. Quelle sono, da sempre, terre di passo. Come tutta quanta l’Italia. Credo non sia per caso che questi tre grandi autori del nostro tempo, De André, Loi e Biamonti, vengano tutti da una terra di mare, dalla Liguria, luogo di orizzonti lontani, di apertura verso altri mondi. Qualcosa vorrà pur dire. Dall’altra sponda del mare, da Sousse, era arrivata l’artista tunisina Mouna Amari che abbiamo ospitato nel CD Terre di passo.

Le memorie di guerra mi sembrano un altro snodo importante della vostra poetica. Mi raccontate il progetto Voci di trincea?

Qui dal mare passiamo al Carso, al Monte San Michele, a Gorizia, al Monte Nero. Tutti luoghi citati nei canti della Grande Guerra e tutti nomi che, ho ritrovato, con la stessa drammaticità, nei fogli matricolari dei miei nonni, dei loro fratelli e cugini uno dei quali, Giovanni, di 22 anni, non tornò. Quella guerra ha rubato la vita e il futuro a milioni di giovani: oggi ci rimangono lettere, testimonianze, canzoni. Canti perlopiù presi dal repertorio popolare, e adattati alla guerra, o di nuovo conio come la bellissima canzonetta napoletana Sona chitarra che nelle trincee del Carso diventa Fuoco e mitragliatici. C’era tanto materiale a disposizione: come non farne uno spettacolo? Voci di trincea è nato con un lavoro di intersezione tra canti di protesta raccolti in questi anni – come la bellissima versione di Monte Nero che ci cantò, non senza qualche timore perché durante il fascismo era proibita, Eva Tagliani – testimonianze di soldati al fronte, musiche delle fanfare e immagini di repertorio. Dai live, perlopiù tenuti in forti militari della Grande Guerra, teatri e scuole, abbiamo poi tratto il CD dove vi hanno suonato, oltre ai citati Caglioti, Grasso e il sottoscritto, anche Paolo Ronzio (chitarra, piffero e voce), Alberto Rovelli (contrabbasso) e Diego Ronzio (clarinetto), Donata Pinti (voce). Adesso lavora con noi anche la giovane cantante e violinista Maddalena Soler.

Un’ultima domanda di carattere generale. Nei tempi liquidi del nuovo millennio in cui tutto scorre come un unico flusso ininterrotto e sempre calato nel presente, quale spazio rimane secondo voi per la ricerca folk?

Tranne rare e lodevoli eccezioni, il folk di oggi non ama la ricerca, non sembra interessato ai repertori personali o di famiglia, agli stili, a conoscere il contesto sociale. Ignora chi sia stato Melchiade Benni, grande violinista dell’Appennino bolognese, e non ha mai sentito parlare di Costantino Nigra. C’è un grande impoverimento culturale: siamo passati da Alan Lomax alla mazurca clandestina. In realtà ci sarebbe tanto da fare. Basta allargare lo sguardo, aprire la mente. Penso al lavoro che ci sarebbe da fare negli archivi delle bande di paese e in quelli delle filarmoniche, alle musiche delle nuove comunità che popolano le nostre città, ai repertori degli emigrati italiani in Sud America, ai canti e alle musiche incisi sui dischi 78rpm un secolo fa, spesso reperibili all’estero ma non in Italia. Non so se sia folk o altro. Ma sono patrimoni musicali e culturali che potrebbero raccontare tanto.

DISCOGRAFIA
Musa di pelle…pinfio di legno nero (Madau Dischi, 1984)
Il valzer dei disertori (Associazione Culturale Baraban, 1987)
Naquane (ACB, 1990)
Live (ACB, 1994)
La Santa Notte dell’Oriente (ACB, 1996)
Terre di passo (ACB, 2002)
Venti5 d’Aprile (ACB, 2005)
Voci di trincea (ACB, 2015)

(foto 1 Elena Piccini – foto 2 Roger Berthod – foto 3 Federico Buscarino)

(1) Re Nudo era una rivista dedicata alla cultura Underground, alla controcultura e alla controinformazione fondata a Milano nel novembre 1970 da un gruppo di artisti ed intellettuali. Fra le varie iniziative la rivista promosse alcuni raduni Pop: Il Festival del Proletariato Giovanile, il primo dei quali si svolse a Ballabio, vicino a Lecco, nel 1971. La seconda edizione si tenne a Zerbo, sul fiume Po, nel 1972. Nel 1974 il raduno pop di Re Nudo si sposta a Milano presso il Parco Lambro. La «Festa» richiama per quattro giorni, (dal 13 al 16 giugno) migliaia di spettatori con una punta eccezionale del sabato, per l’esibizione della PFM. Si avvicendarono sul palco circa trenta «act», tra gruppi e solisti: nomi celebri come Perigeo, Alan Sorrenti, Area, Premiata Forneria Marconi, Battiato, attorniati da altri già parzialmente affermati (Acqua Fragile, Biglietto per l’inferno, Rocky’s Filj, Trip, Loy & Altomare, Volo, Donatella Bardi, Stormy Six, Angelo Branduardi, VetroVivo,Canzoniere del Lazio, La Comune dei MAD (formazione legata alle esperienze degli Aktuala e soprattutto degli Arti, un sestetto guidato dall’ex Trip Furio Chirico). Nel 1976, dal 26 al 30 giugno, si tenne nuovamente al Parco Lambro, l’ultima, travagliata edizione del Festival del proletariato giovanile, cui partecipano più di quattrocentomila persone. Il festival fu segnato da gravi problemi di ordine pubblico, aggressioni e saccheggi.