“Ho visto gente piangere col piffero”.
“Bani” si racconta

a cura di Aurelio Citelli
Degara di Bobbio (PC), 14 maggio 2004

Il 14 maggio 2004, dopo aver passato la mattina a Cegni (PV) a intervistare Stefano Valla per il video La voce dei pifferai, mi sposto a Degara di Bobbio (PC) dove ho appuntamento con Ettore Losini “Bani” (1951), pifferaio, costruttore di strumenti e instancabile inventore di mille diavolerie. Conosco Ettore dal 1980 quando ho filmato lui e il fisarmonicista “Tiglion” (Attilio Rocca) a un pranzo di nozze. Ci siamo poi rivisti molte volte a concerti, feste da ballo e nel suo laboratorio di Piacenza. Quando arrivo a Degara, Bani è impegnato a restaurare un muretto. Il tempo di ripulirsi, cambiarsi ed è pronto a raccontarsi.


AC. Quando è nata la tua passione per il piffero e quando hai iniziato a costruirli ?

Tanti anni fa io avevo questa passione ma non ho mai avuto occasione di avere uno strumento del genere. Negli anni Settanta, nel Sessantanove, suonavo la musica di allora, suonavo l’organo. Poi sono andato ad abitare a Piacenza perché mi sono sposato e ho conosciuto una compagnia di montanari di tutti i paesi qua dintorno che andavano tutti in un osteria al venerdì. Si cantava e si beveva qualche bicchiere. E avevano un piffero. Però non riuscivano a tirarci fuori niente: un po’ per il piffero, un po’ perché non saranno stati portati. Allora, siccome suonavo un po’ il piano, suonavo la fisarmonica, un bel giorno ci ho detto: “Da qua che provo io”. Ho detto: “Ma va al rovescio della fisarmonica. Apri invece di schiacciare, gli acuti sono in alto…”. Ho provato a fare una Piemontesina e ho visto che riuscivo. Poi dopo, però, c’era il problema dello strumento perché chi lo aveva se lo teneva: Giuvanein lo suonava, il Rosso anche, Ernesto pure. E chi l’aveva, se non lo suonava, lo teneva come ricordo di famiglia.
Poi ho avuto una botta di fortuna. Un giorno, ho trovato un conoscente che aveva un tornietto, quasi un giocattolo, ma non serve molto per costruire un piffero… Insomma m’ha venduto questo tornio e ho cominciato a farlo. La gente mi diceva: “Uè, vuoi fare il piffero, ti vuoi vantare di essere capace di fare un piffero”. Mi dicevano delle cose magiche, delle robe strane: “Non ci riesci”. Allora l’ho fatto quasi per dispetto, oltre che per bisogno, per far vedere che sapevo fare questa cosa…
Forse, un po’ per fortuna, il primo andava… Sono venuto su da Guido Grilli che abitava qua in fondo alla strada di Degara – lui era del Lago e aveva suonato anche con Giulitti, con diversi pifferai – ed è stato il mio primo socio. Abbiam provato questo piffero: “Oh, ma guarda te! Ma guarda te cos’hai fatto!” . Insomma, ho cominciato così e pian piano, con gli anni… non ho ancora finito d’imparare.

AC. Quali suonatori c’erano a quell’epoca?

Mi ricordo Ernesto Sala, Giulitti, cioè Angelo Tagliani (di Colleri, ndr), Giuvanein, Giovanni Agnelli e il Rosso, Luigi Agnelli, erano due fratelli. E poi qualcun altro di cui non ti so dire il nome che veniva dalla Tour dai Alber (Torre degli Alberi, ndr). Qua dicevan così ma non son mica sicuro di che paese fossero.

AC. Suonavano in questa zona o andavi tu a sentirli in valle Staffora?

Sì, facevo chilometri per andar sentire mezza suonata. Che poi, se se ne accorgevano, magari non te ne facevano sentire una nuova… Perché era anche un po’ così.

AC. Come facevi a ricordartele?

Eh, prima le ricordavo perché mi piaceva talmente. Poi mi sono abituato e mi ricordavo di meno. Allora mi son comprato un registratorino di quei Geloso lì, con la levetta in mezzo, insomma quegli degli anni Settanta, e ho cominciato… Poi c’era qualche altro pifferaio che ho visto a Bobbio coi coscritti. A Bobbio ne venivano tanti. Poi a Vaccarezza ho conosciuto Angelo Tagliani con Dante (Tagliani, ndr), avrò avuto diciassette, diciotto anni.
Dopo ho trovato Attilio (Rocca, ndr). Lo conoscevo già di fama, lo vedevo in giro, quest’uomo già un po’ pelato, che suonava con Mino (Galli, ndr), a volte con due fisarmoniche, coi pifferi. Una volta era a Lago Bisione, il paese qua di sopra a me, che suonava con Giuanein e mi aveva fatto impressione questo strumento con dei fori… mi sembrava una roba magica… Però ero ancora un ragazzetto e mai avrei pensato che arrivavo a suonarlo anch’io.

AC. Le prime suonate da chi le hai imparate?

Eh, da tutti. Le prime dal Giuanen e dal Rosso. Poi ho cominciato a seguire anche Ernesto, dal vivo e anche sulle registrazioni, ho cominciato a frequentare anche gli altri ragazzi che suonano, così si fa dei confronti… Prima facevo valzer, polche e mazurche e qualche giga. Poi ho capito che era una cosa importante… non lo sapevamo mica che certe cose erano importanti da noi. Anche i miei paesani e tutta la valle… Poi, un po’ con l’arrivo dei ricercatori, un po’ così, abbiam detto: “Ma allora questa musica è importante, è un valore”. Perché c’è ancora quella cosa del paesano che non dà importanza alla nostra roba (cultura, ndr), magari preferisce uno con una tastiera, cioè… non siamo tutti ‘culturati, purtroppo. O meglio: forse è anche meglio, chi lo sa!

Ettore Losini “Bani” e Attilio Rocca “Tiglion” a “Sunadù, balerèn e canterèn”, San Martino di Varzi (PV),1987 (foto di Paolo Ronzio).

AC. Cosa si ballava in quegli anni?

Eh, si ballava qualche giga, che ricordo io, valzer, polche e mazurche, col piffero, con i Musetta, che erano questa coppia qua che ‘desso siamo diventati noi. Ma i Musetta, da noi, erano quelli che suonavano questa musica.

AC. Si suonava tanto qui nel Piacentino?

Ricordo che si facevano delle feste dove la gente gridava: “Iu uuuuuu” e ballavano, era una roba… il piffero andava da solo, via, era una roba che ti tirava. Questo clima si perde un po’… Ho visto gente piangere col piffero, dalla emozione… cioè, è una cosa bellissima, ecco.

AC. E per lo stile tu a chi ti sei ispirato?

Io mi sono ispirato al Rosso e al Giuanein. Poi quando ho cominciato a seguire anche le cose di Ernesto ho cercato di cambiare un po’. L’imboccatura che ho adesso, logicamente, venticinque anni fa non ce l’avevo. Però per un giovane che cominciava a suonare – allora ero l’unico – se non c’erano quei due lì e Ernesto… Avevo fatto un po’ successo subito, anche se non lo meritavo. Perché era una novità, no? Come la mia prima incisione su musicassetta che è stata la prima che abbiano mai inciso i pifferi: ha avuto un successo enorme. Non era neanche brutta a dire la verità…

AC. Quante serate fai adesso in un anno ?

L’anno scorso ne ho fatte una cinquantina. Dipende da come va perché io non mi promuovo tanto bene, eh! Chi mi conosce mi chiama. C’è qualche amico che mi da qualche data… Dovrei fare di più per promuovermi ma sono un vulcano di idee e di lavori… Poi costruisco gli strumenti, poi magari mi costruisco qualcosa con la saldatrice… Dipende cosa mi viene in mente.
Ho cominciato a fare i pifferi perché sono una persona un po’ matta. Una volta, per esempio, da piccolo, a diciotto anni, mi sono costruito un trattorino, ecco!

AC. Poi avevi un lavoro, no?

Sì, sì, lavoravo nell’azienda dei bus, a Piacenza. Ero in officina, facevo il meccanico. Anche lì, la manualità che c’ho, oltre alla scuola di qua, dell’arte di arrangiarsi, di fare una slitta col fil di ferro, l’ho imparata facendo il meccanico. Lì acquisti una certa capacità, un certo modo di lavorare.

AC. Quali sono le occasioni in cui ti chiamano a suonare?

Mi chiamano per i coscritti, i matrimoni, qualche festa da ballo. Ce ne sono ancora. Sopravvivono. Meno male che sopravvivono. Adesso qualche volta andiamo anche all’estero o per l’Italia, in giro, fare degli spettacoli che secondo me non è proprio da pifferai. Mi piaceva andare in giro perché quelli del posto dicevano: “Bani è andato anche là” e mi vantavo di questo… Forse, al giorno d’oggi è bene che sia così.

AC. Secondo te, da quando hai iniziato ad oggi, è cambiato il modo di porsi del suonatore?

Sì, è cambiato… Molti prendono uno con la tastiera, mette su i dischi fa finta di suonare, non è neanche male… Almeno, quando chiamano i pifferi, chiamano i pifferi. Puoi fare le gighe, non ti vengono a chiedere delle robe moderne, impossibili tra l’altro da suonare. Prima, sai, si faceva di tutto, anche le canzoni di Sanremo, le faceva anche Ernesto. E questo era anche un bene perché ha salvato lo strumento. Però facevano delle richieste assurde. Adesso succede molto meno, meno male… Se uno chiama i pifferi è perché gli piace questa musica: allora perché mi devi chiedere una Macarena?

AC. Si è anche un po’ alzato, il livello…

Sì, sì. E poi Bobbio è il mio paese, non sono profeta in patria però non mi posso lamentare. Mi trattano abbastanza bene, anche l’amministrazione…

AC. Quante suonate hai in repertorio?

E ‘desso non lo so perché non le ho mai contate… Saranno anche cinquecento o di più. Tra il liscio da piffero e le robe antiche, ne so parecchie ma non le ho mai contate. Quando vado a suonare non mi faccio mai una scaletta. C’è il periodo che mi vengono in mente quelle venti suonate faccio sempre quelle lì…

AC. E come costruisci la scaletta durante la serata?

Eh, a mente. Poi, se magari non mi viene in mente una cosa Tilion (Attilio Rocca, ndr) comincia una roba con la fisarmonica e mi sovviene quella e intanto me ne viene in mente un’altra e viceversa. Con Attilio è così, andiamo avanti così.

AC. Il tuo repertorio è particolarmente legato al liscio da piffero.

Ho fatto anche qualche esperimento rock. Ma quando le società sono più di tre… Le società devono essere dispari e meno di tre… No, il numero perfetto è tre, secondo me.

AC. Di chi era stata l’idea del gruppo rock?

Era stata mia e di Piercarlo (Cardinali, ndr) perché abbiamo un amico, che è ancora con noi, che è un chitarrista incredibile. E poi, sai: e quello della batteria e quell’altro. Quando sei in tanti poi va a finire che è bene troncare subito se la cosa non va.

AC. Come si chiamava questa esperienza?

Cultura zero.

AC. Era un tentativo per affiancare il piffero a strumenti moderni.

Sì, ma è stato un bene perché adesso questo chitarrista fa delle cose con noi. Lui è un professionista anche se adesso non suona più come professione. Ora ha capito almeno il genere. Se dobbiamo fare qualcosa, sa cosa fare.

AC. Tu, lo si vede anche da quello che costruisci, sei per innovare.

Un po’ sì, sì. Tenendo sempre molto il filo della tradizione, senza stravolgere totalmente. Cioè che ci debba essere ancora lo spirito di un tempo: per esempio il mio spirito sarà sempre un po’ allegro, qualsiasi cosa facessi… ma non mi piace consumarlo troppo. Però sì, quelle innovazioni lì a me piacciono.

AC. Che metodo utilizzi per imparare una suonata? Memorizzi una melodia e la risuoni spontaneamente?

Mi viene il giorno dopo, di solito. L’ascolto tanto, l’ascolto intanto che vado in macchina e poi mi viene in mente. Poi controllo se è giusta. Ho fatto anche delle suonate nuove io, su quello stile lì. Le ho pensate, perché non so scrivere…

AC. Usi il flauto per imparare ?

Sì, a volte sì. Quando magari segui il registratore… Ma è bene inculcarseli bene nella memoria con la voce perché se la sai cantare la suoni di certo. Seguendo il registratore – col piffero o il flauto – ti sembra di saperla ma poi quando tiri via il registratore non la sai!

AC. Che rapporto hai con il suono del piffero…

E’ una cosa molto importante. Io non sono un grande tecnico. Però io – non so come definirmi – una suonata che ho fatto duemila volte, magari ci do una cosa che ieri non gli ho dato.

AC. Come si è evoluto il tuo stile, da quando hai iniziato a suonare ad oggi?

Non mi sono mai piaciuto. Ho un’imboccatura… nelle registrazioni di venticinque anni fa sembro un gallo sul pollaio. Adesso comincio a piacermi e quello lì è pericolosissimo…

AC. … perché c’è il rischio di fermarsi?

Eh, senz’altro. Noto che tutti gli anni un qualcosa cambia in me. Speriamo che continui così!

AC. Cosa pensi dell’uso del computer nella musica da piffero?

Io non lo so accendere. Ma mi piacerebbe molto perché penso che sia una buona cosa. Aiuta molto, ecco. Poi, uno dovrà sempre avere dell’inventiva lo stesso, anche per fare una suonata nuova col computer, no? Penso che aiuti molto. Perché non utilizzarlo? Oh, per fare certi lavori, non per fare il suono, eh, come i campionatori! Quello lì no.

AC. Dicevi che hai composto delle musiche nuove…

Sì, ho fatto una polca che sembra una polca da liscio. Difatti non riesci neanche a masticarla come faceva Ernesto… E poi ho fatto una mazurca di bravura con delle quartine… e poi ho fatto la Giga dei Musetta, Mond e pais. L’abbiamo fatta io e Piercarlo. A volte, le suonate rispecchiano un po’ il mondo di prima, anche le parole stesse – perché facciamo anche le parole – con le parole dialettali di una volta che magari non si usano neanche più, ma mi piace che ci sia questo riflesso qua.

AC. Che idea ti sei fatto delle vecchie musiche da piffero, delle monferrine, delle gighe, delle alessandrine, insomma di quel patrimonio legato soprattutto alla Valle Staffora?

No, era un patrimonio anche di qua, di qualsiasi valle, dappertutto. Le robe si sono perse più in un posto e meno nell’altro. Il discorso è quello lì. Ma il modo di ballare la giga, per esempio, era un qualcosa di diverso da un paese all’altro. A Colleri non la ballavano come a Cegni, avevano un passo diverso. La donna faceva i passi indietro, l’uomo in avanti. E’ come il canto d’osteria, il canto tradizionale dell’Appennino: cambi paese di un chilometro, cambia qualcosa. Ecco. Il discorso è quello lì. Ma c’erano dappertutto.

AC. E che idea ti sei fatto sull’origine delle musiche da ballo antiche?

Ci penso sempre. Io ho le mie fantasie. Prima di tutto penso che le Gighe siano tutte un po’ Gighe, no? Cioè c’è la Giga del Monferrato che è la Monferrina. O l’Alessandrina… Molti qua andavano via a lavorare, anche a Cegni, dappertutto, e avran portato via qualcosa ma han portato anche a casa tante cose. Anche le canzoni medesime. Senti delle canzoni che trovi anche in altre parti d’Italia e allora vuol dire che c’erano degli scambi. Come la faccenda della piroette del nostro piffero, per esempio: non si sa il perché, non voglio far… però una volta la gente andava a piedi anche in paesi lontani e portava più cultura.

AC. Secondo te quali sono stati i suonatori del passato che più hanno lasciato un segno della loro presenza?

Penso che siano stati Jacmon e Ernesto. Ma il segno l’ha lasciato anche Gianni Agnelli – non quello della Fiat – e il Rosso, pur facendo del liscio da piffero… Giuanein faceva anche qualche giga, qualche monferrina perché andava un po’ a suonare anche in Val Curone. A me il Rosso piaceva perché aveva una carica incredibile, no? Tutti hanno dato il loro contributo, penso. Poi ce n’erano tanti. Ce n’erano anche dei cani che facevano tre suonate fatte male. Perché di buoni ce ne son sempre stati pochi, eh! C’era Jacmon, poi c’era Ernesto, poi, a parte il genere un po’ diverso che facevano, ma anche il Rosso e Giuanein non erano da buttare via, eh, cioè… hanno dato tutti il loro contributo.

AC. E quello di Sotto il Groppo?

Quale?

AC. Fiorentino Azzaretti.

Ah, giusto, dimenticavo, eh sì. C’era anche il Fiorentino. Qua, in questa zona ne parlavano moltissimo, ne parlano ancora adesso. Anche i miei zii vecchi, ne parlavano. Arrivava a suonare persino a Pradovera e in Val Nure. Io non l’ho mai conosciuto perché sono di un’altra età. Non so se l’ha conosciuto Attilio, perché Attilio ha conosciuto Jacmon, per esempio, perché Attilio è del Trentaquattro, io son del Cinquantuno, non so Fiorentino quando è morto, non mi ricordo, però ne parlano molto. Suonava con uno di Dezza. Anche a Bobbio lo ricordano, dappertutto…

AC. Veniva spesso a Bobbio a suonare per le feste dei coscritti e per carnevale…

Sì.

AC. Se dovessi raccontare un aneddoto, una storia, su qualche pifferaio, cosa ti viene in mente?

Ah… mi viene in mente che Fiorentino, per esempio, dicevano che era uno piccolo, magro e ridicolo, era un buffone, ci sapeva fare. Mi dicevano che una volta, a Marsaglia, era vestito con le scarpe da donna col tacco e girava, suonava e cantava: “Trapulìn che ciapa i rat o me i a ciapi sensa gat”. Quelle robe lì, no? Aneddoti, poi, ce ne sono tanti ma adesso non me ne vengono in mente.

AC. Qual’è stato il fisarmonicista con cui tu hai iniziato a suonare e a fare un lavoro importante sul repertorio? Attilio?

Attilio Rocca “Tiglion” (1934 – 2021) (foto Marino Panigati)

No. Ho cominciato prima con Guido Grilli. Ero alle primi armi, Guido era un’accompagnatore normale, aveva suonato anche con Giulitti e con tutti… però accompagnava con gli accordi, ribatteva gli accordi, non era… Sì, il sistema era giusto. Poi, sai, ci voleva poco allora per suonare con il piffero, non si andavano a ricercare tutti gli accordi come adesso, qua e là, e boh… Poi sono andato con Franco Guglielmetti. Poi ci siamo divisi io e Franco e Franco è andato con Stefano (Valla, ndr), che allora aveva cominciato a suonare, e io sono andato con Tiglion (Attilio Rocca, ndr). Subito, subito non ci prendevamo tanto, non mi piaceva neanche tanto, a dire a verità. Poi invece ho capito che è un personaggio incredibile. Possessore dell’orecchio assoluto, ma questo non vuol dire suonar bene… Ho suonato anche con Mino Galli che era bravissimo. Ho suonato molto con Dante Tagliani, anche … Perché una volta, anche se uno aveva il socio, c’era l’uso di dire: “Il fisarmonicista lo prendi su te o te lo cerchiamo noi?”. Si faceva anche così, eh! Ho suonato con Cinto (Giacinto Callegari,ndr), ho suonato con tanta gente… con Mini (Giacomo Davio, ndr). Ho suonato con tanta gente parecchie volte, anche quando il mio socio era Attilio. Anche lui suona con Stefano, non è un problema, ecco.

AC. Quanto è importante il rapporto con il suonatore di fisarmonica ?

Sì, tanto. Poi, quando sei al livello di adesso, ancor di più. Con Attilio abbiamo fatto un certo lavoro, con gli anni, imparando in giro, intanto che suonavamo, perché di prove io e lui, ne abbiam fatte quasi mai. Solo per fare gli ultimi dischi quando è entrato Piercarlo, o per fare certe cose o per fare il rock. Ma io e lui, i dischi che abbiamo fatto io e lui, provavamo la suonata all’uscita dell’autostrada. Robe da matti. Non c’è da vantarsi, eh, però!

AC. Quali sono le caratteristiche che apprezzi in un bravo suonatore di fisarmonica?

Il mio ideale era la buonanima di Mino Galli. Perché faceva anche delle improvvisazioni, hlm, hlm… col soffietto, qualche scala. Parliamo di Attilio… per spiegare bisognerebbe sentire. Io non sono ferrato musicalmente, quindi… Attilio fa anche delle seconde voci, gli accordi ribattuti come fanno tutti, qualche arpeggio fatto in un certo modo, cioè… perché se no si diventa un po’ monotoni, ecco. E’ un po’ di vivacità.

AC. Cosa ne pensi del lavoro di ricerca fatto dagli studiosi come Bruno Pianta negli anni Settanta?

Noi forse non ci accorgevamo di cosa avevamo in mano se non arrivavano loro a dargli importanza. Adesso, magari possiamo arrangiarci anche da soli. Bisognerebbe che fosse ancora al mondo Leydi, che venisse Pianta, che venissero a dire ancora alla nostra gente quanto è importante la nostra cultura: “Oh, guardate che questa cosa son le nostre radici”. Se un albero gli tagli le radici, eh, addio!

AC. E secondo te questo albero può dare ancora frutti?

Ma penso di sì. Penso ai giovani. E’ dura perché oggi non basta più fare solo il suonatore, bisogna anche cercare di fare qualcosa in più, insomma.

AC. Tu hai fatto una cosa importantissima che è stato metterti a ricostruire i pifferi.

E sì. Poi, può venire anche un altro a costruirli, però se non cominciavo io. Sono un po’ presuntuoso ma…

Ettore Losini nel suo laboratorio, Degara di Bobbio, 2004 (foto Aurelio Citelli)

AC. Ma come si è evoluta questa attività: tu hai cominciato a costruire quel piffero là quasi casualmente e poi?

Sì, e poi ho cominciato a farne per qualcuno che lo ha attaccato al muro, non l’ha suonato, qualcuno che l’ha suonato un po’. Poi è arrivato Fabrizio (Ferrari, ndr), è arrivato Stefano, è arrivato Roberto (Ferrari, ndr). Perché poi c’era anche Agnelli Gianni, non il suonatore, che li faceva. Però, poveretto, non aveva cognizioni musicali, li faceva bene ma non suonavano tanto bene, ecco. E allora, poi son venuti da me.

AC. Così, hai comprato un tornio, ti sei fatto gli attrezzi…

E sì. Mi son dotato del tornio, poi degli attrezzi. Poi non sapevo come si faceva fare il cono. Un alesatore, oltretutto, costa anche dei soldi. Allora non avevo neanche per idea di spenderli. Poi un mugnaio di Piancasale, m’ ha detto: “Ma, o cretino, guarda che per fare i coni come nelle ruote del carro che c’è la boccola che va nell’assale, è conica e ci mettono dentro un ferro conico che è una bronzina di ferro e c’hanno un ferro fatto così e così, è un ferro quadrato a piramide o piatto, fatto a piramide, tu fai un foro cilindrico, piccolo, poi lo svasi con quello lì ed è come un alesatore, perfetto. Se non vuoi farlo te a mano lo fai spianare dove spianano le teste dei camion e delle macchine, i lapidelli quelli… lo fai bel piano e sei a posto”. Io con poca spesa me lo sono fatto e ho cominciato. Prima avevo provato con tutti i mezzi: una punta da muratore, con la mola, ma non funzionava.

AC. Quali sono stati i problemi maggiori che hai dovuto affrontare per arrivare a fare uno strumento soddisfacente sotto il profilo costruttivo?

E i problemi sono il rapporto al cono, andar su di più, però magari il timbro… ci sono tante cose no? Perché per l’intonazione poi lo tiri su ma se va su troppo poi diventa troppo cupo, no? Lo puoi rintonare lo stesso ma… Perché cala, no? Però è anche più libero. Soffi anche un po’ meno.

AC. Ti sei basato solo sul tuo intuito o hai fatto qualche lettura per la costruzione dei pifferi?

Prima di tutto sono andato a Cicagna a vedere come facevano i pifferi. I primi andare là siamo stati io e un mio amico, eh! Il tornio (di Nicolò Baciugalupo u Grixiu, ndr) adesso è a Parma (al Museo Guatelli, di Ozzano Taro PR, ndr) ma è tramite me che son venuti a sapere quelle robe lì. Poi sono andato a Ozzola dove ho trovato anche la musa. C’era il chanter della musa, il bordone, mancante della sacca. Le prime volte andavo a intuito, poi con gli anni ci si confronta con uno che fa le cornamuse, coll’altro che fa i clarini, coll’altro… I problemi sono un po’ i soliti: “Come fai te a fare questo?”, ci si scambiano idee, anche per gli alesatori e così, per fare il foro cilindrico: “Cosa usi, una punta normale o fatta in un altro modo?”. Insomma, dopo si impara da tutti.

AC. Quando hai iniziato non c’era più nessuno che costruiva i pifferi?

No, no. Assolutamente, no.

AC. Quindi non avevi riferimenti.

Io ho conosciuto il figlio di quello di Ozzola che m’ha insegnato a fare le ance. Sapeva fare le ance ma i pifferi no.

AC. Dove vai a recuperare i legni e quali essenze usi per la costruzione degli strumenti?

Io li faccio di ebano, come faceva anche il Grisu (Nicolò Bacigalupo, ndr) a Cicagna, o di bosso. Si possono fare anche di susino, di sorbo. Il susino era molto buono ma qua si usava il bosso e quel materiale lì perché l’ebano… Invece magari il Grisu col mare, c’era più commercio, forse riusciva ad averlo. Tra l’altro aggiustava i clarinetti da banda e avrà visto che l’ebano… penso sia stato lui ad introdurlo anche se non è sicuro perché ultimamente si sono trovati degli strumenti in ebano a Cantalupo Ligure. Non li ha fatti lui (Bacigalupo, ndr) perché sono più vecchi.

AC. E il legno dove vai a prenderlo?

Io vado a Desio. C’è una segheria che fa arrivare i legni per i clarinetti e io li utilizzo per fare i pifferi. Ultimamente gli è arrivato anche del bosso, uguale al nostro nazionale, che però viene dalla Russia. Legni enormi. Bellissimi. L’ho portato a casa, non si piega perché quando tu lo tagli in quattro, che è grosso, il quarto non si piega.

AC. Che differenza di suono c’è tra l’ebano e il bosso?

Ma l’ebano a me piace di più, però come t’ho detto, con gli anni sto anche cambiando idea. Adesso ne ho fatto uno di bosso e lo suono. Poi un piffero va più o meno bene di un altro oltreché per il legno anche per la costruzione. Però l’ebano ho scoperto che ha molti più armonici del bosso, no? Però il bosso ce li ha tutti uguali, secondo me, sia in fondo che a metà che in cima. Invece l’ebano li spara molto sugli acuti. Da registrare in sala d’incisione da più problemi, diciamo, ecco.

AC. Sei soddisfatto, adesso, dei tuoi pifferi o c’è ancora qualcosa che vorresti migliorare?

Ma no, c’è sempre da migliorare. C’è ancora qualcosa, sì, che non ho ancora scoperto, quello che sto cercando che non so che cos’è. Forse quello che suona da solo, no?
E poi ho inventato anche altri strumenti: ho fatto un piffero basso in MI, perché potevo farlo anche in RE piuttosto che in MI ma siccome è una tonalità che predilige Attilio l’ho fatto per fare un regalo a lui. Lo suono io ma… Ho fatto anche un flautino in MI. A lui piace MI, MI bemolle, quelle suonate lì. Poi ho fatto delle specie di bordone piegato in due con delle chiave per poter arrivarci con le dite in RE. Avevo fatto il Banofono, anni fa, che è un Oboe in RE, pensando di aver inventato chissà cosa… E vado in Francia li trovo là uguali, stessa tonalità, fatti anche con la forma uguale. Questa mi è capitata bella!

AC. Hai fatto anche la Contromusa.

Sì, la Contromusa, un’ottava sotto la musa normale, sempre in DO. Costruisco dei clarinetti tipo i chalumeau francesi che sono un incrocio tra piffero e clarinetto perché hanno la tonalità del piffero, con la diteggiatura del piffero, che per un pifferaio se volesse, per un incisione o in uno spettacolo avere un suono più basso, magari per fare una suonata, non per dimenticare il piffero ma per avere un qualcosa di diverso, per cambiare o variare un po’. Ho fatto questo clarinetto che ho chiamato Cliffero perché è un incrocio tra… Invece il piffero in MI l’ho chiamato Miffero.

AC. Come inizia la costruzione di un piffero?

Prendi un quadratino di legno, lo fori internamente cilindrico no?, poi ci passi un alesatore che può essere quadrato o più sofisticato, rotondo, tagliato col laser, ma così è lo stesso, vedi?, questo qua, girando, crea il cono… va avanti nel nel foro, pian piano, non è che lo faccia in un secondo, eh! E poi se è scentrato non c’entra perché il foro è dritto, lo metti sul tornio con le contro punte, una qua e una qua, e lo centri fuori. Poi ci dai la forma. Poi la campana altrettanto. C’hai un foro cilindrico così, c’è un alesatore apposito, lo potresti fare anche con lo scalpello ma è più pericoloso, lo metti sul trapano a colonna e sfiut… Poi lo tornisco fuori. Cioè non è così semplice come a dire…

E. Quanto impieghi a fare un piffero?

E sulle venti ore, volendo una settimana, ecco. Poi ci metti la vera, poi bisogna fare le ance.

AC. Costruisci anche i flauti?

Sì, questo è in SOL, per i pifferai. Questo è in MI, di bosso. Queste sono muse, che devo finire. Questo è un bordone piegato in due: farlo intonato ho dovuto fare tutto un meccanismo per poter chiudere i fori. Questa l’ho chiamata Corna ad pigra.

AC. Come trovavi tempo per costruire i pifferi, quando lavoravi all’azienda?

Eh, li costruivo a casa, in condominio, ed ogni tanto quando facevo la notte, facevo finta di niente e usavo il tornio al lavoro… Facevo il meccanico, facevo di tutto, saldavo, usavo il tornio.

AC. Lavoravi soprattutto di sera, quando eri a casa ?

Sì.

AC. Facevi i turni, in azienda?

Facevo i turni. Ma è quando facevo la notte, appunto, che ogni tanto, se non c’era nessuno, trac, facevo un pezzo di piffero.

AC. I sacchi delle cornamuse, invece, come li fai?

Li faccio di pelle, cuciti. Gli metto lanolina e vaselina.

AC. Per la costruzione della musa ci sono stati dei problemi inizialmente ?

Sì, sì. Non sapevamo com’era, come non era. E studia che ti studia e via, tutte quelle robe lì. E poi, insomma, con le sacche…le prime per esempio le facevo di gomma ma era una roba… Poi d’inverno suonavi all’aperto ed era una roba… Non si può, ecco. Se fosse aria secca come quelle a soffietto puoi usare anche la gomma, ma con il fiato, la condensa, non si può. Invece con la pelle… Cambia addirittura il suono, mi sembra.

AC. Poi, però ti sei specializzato anche a costruire le muse.

Sì. Muse, pive, la piva di qua, di Mareto, di Mezzano Scotti.

AC. E le ance da piffero, invece, come le fai?

A volte prendo la canna quando vado in Liguria, se no ci sono anche qua. Devi trovare quella buona, se fatta sul terreno magro. La solita storia, no? Ci son di quelle che poi magari sembra buona ma poi non è proprio buona: “Ma perché, cosa c’ha questo piffero che è in FA diesis?” perché è sempre un po’ critico il FA diesis. “E invece con un altra ancia non lo fa, perché ?” E’ lungo uguale, eh… Taglia l’ancia, crescono tutte le note… eh, è la canna! E’ la canna! Se è buona, è buona.

AC. E la lavorazione?

Io uso una sgorbia, faccio il canale, poi la liscio un po’ con la carta vetrata, la piego in due, il solito sistema. Solo che mi sono stancato con la sgorbia, monto quest’affare che non è finito tanto bene ma fa niente, sul tornio in questo modo qua, con la torretta, questo qua gira, io tengo lì la canna così, questa della misura, eh, zzzit, e me lo fa. Questa è carta vetrata, un rullo di carta vetrata, me lo fa. Poi, potrei fare anche degli avanzamenti, delle guide, volendo fare dei meccanismi ma ….
Ho visto qualcosa che facevano per l’oboe: c’è una pialla fatta concava così, con dei morsetti, due morsetti: tu spingi, questo morsetto schiaccia di qua e tiene di qua, tiri indietro questo schiaccia di qua e… Ho visto anche quella lì…’desso se vado da qualche parte che la vedo ancora, poi la faccio.

AC. L’ancia ideale qual è secondo te?

E l’ancia ideale è sempre quella che rompi troppo presto. In dieci anni ne prenderai una, proprio l’ancia ideale… Ne prendi tante. Su dieci nove vanno, anche dieci a volte. Vanno bene. Forse anche la canna, il caso, magari di averla costruita in un altro modo, più bene. Chi lo sa? No, ma comunque è il materiale eh?
Anche i pifferi, non puoi dire perché a volte le misure magari puoi sgarrare di qualcosa, insomma li fai proprio uguali, con lo stesso legno. Ma non è lo stesso legno. C’è sempre qualcosa di diverso. Il legno non è un materiale plastico che son tutti uguali.

Bani nel suo laboratorio di Piacenza, 1983 (foto Aurelio Citelli)

AC. I fori come li fai?

Ah, e i buchi mi son fatto un affare col trapano che vado avanti e indietro col carrello o se no li metto lì sul trapano a colonna che c’ho la slitta sulla morsa, va avanti dritto, perfetto. La prima volta li facevo col trapano a mano che era un po’… Andare dritto era un opscional

AC. C’è stata un evoluzione.

E sì, per forza. Ma prima li facevano a mano eh! Se vuoi perdere del tempo, volendo, li fai anche a mano. Però un conto è avere in mano un trapano elettrico, un conto è avere un succhiello a mano. Allora stai anche più dritto. Il trapano elettrico poi ti scappa… insomma.

AC. Non hai uno di quegli utensili che si usavano una volta?

Ce li ho nei sacchi che sto mettendo a posto. Io, essendo nato qua, ho imparato di tutto nella mia vita, meno che far soldi come Berlusconi! Questa, per esempio, è una fresa che ho fatto io. E’ per fare le imposte dei botticelli dei clarino. Bisogna farsi anche gli attrezzi, no?

AC. La tua inventiva non ha limiti…

Eh, insomma. Poi c’ho anche il trapano per trapanare i denti. No, la mia inventiva non ha limiti. E’ che invece di guadagnare dei soldi li spendo. Se io vado in un posto dove ci sono delle macchine, degli utensili, mi rovino. Come uno che ha il vizio del gioco al Casinò. L’altro giorno ho preso un altro trapano col flessibile, con la canna flessibile, è lì da montare. Puoi andare a lavorare nei fori dentro. Se tu hai questo foro che è già al limite come estetica, è già grosso, puoi lavorarlo un po’ sotto…Perché anche farli piegati sono più brutti. Invece li vai a lavorare sotto è come se tu allargassi il coso in quel punto lì e fai crescere la nota, altrimenti… Io ho tirato su il SI dei pifferi che calano tutti. Non so se ho fatto bene o male, però l’ho tirato perfetto!

AC. Quanti pifferi hai costruito finora?

E non lo so ma molti, moltissimi. Altro che mille. Perché a qualcuno non sono andati a buon fine, qualcuno li ha presi, se no ci sarebbero duemila suonatori. Di qualcuno non ho più saputo notizie, non so… Però ne ho fatti tanti. Li ho mandati anche in Florida, in America, anche una musa ci ho mandato, in Francia, ne ho fatti un po’, in Spagna. Poi nei dintorni, Piacenza, Milano, anche ai Barabàn

AC. Chi sono, secondo te, i più promettenti giovani suonatori di piffero?

E beh, questo qua non sta a me a dirlo. Comunque i giovani di adesso sono tutti promettenti. Poi c’è sempre l’eccezione, quello più bravo di un altro… salta fuori sempre il mago. Ma, a me sembra che siano tutti su un buon livello eh, questi ragazzi.

AC. Alcuni lo fanno come professione.

Sì. Io poi dovevo lavorare, mi son sposato anche giovane non potevo neanche dedicarmi del tutto a questa cosa.

AC. E’ vero che esiste la “scuola” della Valle Staffora e quella Piacentina?

No. E’ secondo me una grossa balla. Intanto perché quelli di là venivano di qua, quelli di qua andavano di là. E poi si faceva tutti la medesima tradizione. Come la cucina, di là e qua è quasi uguale, e il cantare si cantano le stesse canzoni. Poi le più antiche come il Draghino, per esempio, o quelle ballate lì, c’erano anche qua. Si sentono a Marsaglia , anche a Pradovera. Mamma mia la spusa l’è chì, la Sposina si cantava dappertutto, a Ceci, a… Che poi, tra l’altro, Bobbio era una provincia del Piemonte quindi, era tutta una zona… E poi a Bobbio di pifferai ne arrivavano tanti, coi coscritti, quando facevano certe feste.

AC. Ma a Bobbio c’erano suonatori di piffero?

Mah, ce n’era uno che però non penso sia stato originario di Bobbio, veniva da una cascina fuori Bobbio. Gli anni che l’ho conosciuto io abitava a Bobbio. Era un suonatorotto così… Era del Sette (1907, Ndr) quindi era già vecchio, non ho possibilità di dire come suonava. Sì, suonare suonava, suonate da piffero ne sapeva parecchie, insomma…