a cura di Aurelio Citelli
trascrizione di Alberto Rovelli
Orta San Giulio (NO), 7 novembre 2004
Cesare Bermani (Novara, 1937) è uno storico italiano e uno dei maggiori studiosi del canto sociale in Italia. Fra i fondatori dell’Istituto Ernesto De Martino, è stato uno dei primi in Italia a praticare il metodo storiografico della storia orale. Ha curato molti dischi riguardanti il canto popolare. Nel 2004, in occasione della produzione del DVD di Barabàn Venti5 d’Aprile, dedicato al 60° anniversario della Liberazione, Aurelio Citelli lo ha incontrato nella sua residenza a Orta San Giulio (NO). Una sintesi di questa lunga conversazione è pubblicata nel video Canti partigiani, intervista a Cesare Bermani, extra contenuto nel DVD Venti5 d’Aprile. Suoni, immagini e memorie per la Resistenza (ACB/DV15, 2005).
AC Al convegno su Canzoni e Resistenza hai detto che il canto partigiano non è stato sufficientemente studiato. Quali sono, secondo te, i motivi?
Le ragioni per cui il canto partigiano non è stato molto studiato sono di vari ordini. Intanto, se tu prendi in mano i canzonieri fatti dai partigiani della Resistenza in una prima fase, diciamo negli anni Quarantacinque – Cinquanta, ma anche dopo, scoprirai che le canzoni hanno avuto un fortissimo filtro; quello che si cantava effettivamente lì non c’è. Ci sono canzoni innodiche, ci sono le canzoni più conosciute, La Guardia Rossa, Fischia il vento, direi meno Bella ciao. Se ben ricordo, la prima volta che Bella ciao appare in un canzoniere siamo già negli anni Cinquanta inoltrati, quasi Sessanta.
Invece, le canzoni che effettivamente cantavano i partigiani – che come puoi immaginare molto spesso erano anche canzoni, diciamo, sanguinarie e antifasciste – sono espressioni di persone che stanno conducendo una guerra e che sono veramente convinte che “tutto il male ci stava di fronte“, come dice la canzone Oltre il ponte di Calvino. Tutto il male sta oltre il ponte, e quindi combattono anche con questo spirito.
Immediatamente, nel dopoguerra, hanno cominciato a subire forme censorie perchè non potevano funzionare con l’amnistia ai fascisti data da Togliatti, erano controcorrente, contro la cosiddetta linea del partito.
Io ti posso dire – perchè può essere divertente – che nel Sessantatre, Sessantaquattro (1963, 1964. ndr), quando cercavo canti sociali nei circoli della provincia di Novara, a un certo momento mi avevano messo dietro un funzionario che ascoltava quello che questi vecchi amici e compagni mi raccontavano e mi cantavano. Allora magari c’era uno che cominciava a cantare:
Noi vogliam Dio in camicia rossa
e San Giuseppe col mitra in man
e la Madonna in motocicletta
far la staffetta dei partigian.
Di benedici Stalin, la falce ed il martel
noi vogliam Stalin per nostro padre
vogliam Togliatti per nostro re
Questo metteva nel più grande sconforto il funzionario di partito il quale diceva: “Ma cosa dici, compagno, ma c’è il dialogo con cattolici. Stalin! Ma ti rendi conto di cosa stai dicendo?” . Era chiarissimo che un periodo come quello della Resistenza dove, bene o male, i raggruppamenti partigiani avevano una forte autonomia rispetto ai comandi, queste canzoni finivano per diventare un elemento di enorme disturbo dentro a qualsiasi tipo di inquadramento politico.
Per cui, riuscire a raccogliere e studiare queste canzoni, come poi si fece a partire diciamo dal Sessantatre – Sessantaquattro (1963-1964, ndr), era veramente scoprire un mondo, era scoprire che questo mondo era molto diverso, non era solo innodico: c’erano canzonette rifatte, per cui, non so, un partigiano magari mentre stava scappando, inseguito dai tedeschi che sparavano, cantava “Ascension, che bel fugon” eccetera, no? È capitato anche questo.
Molte canzoni, poi, erano fatte sulle canzonette della radio di quegli anni. Poi scoprivi che i contenuti di queste canzoni erano direi ben diversi da quelli che avresti potuto attenderti sulla base della lettura dei libri che in quegli anni erano fortemente imbrigliati. Tu sai che Roberto Battaglia, che era azionista, venne a un certo momento censurato da Longo quando parlava di guerra civile: così, a un certo punto, il termine guerra civile sparisce ed è sostituito da guerra di Liberazione.
Naturalmente, poi, tuttto questo confondeva parecchio le idee, perché quando raccogli queste canzoni, una delle cose che colpisce è che, in moltissime regioni d’Italia, nelle regioni principali, è il fascista, più che il tedesco, il vero nemico. Tutto questo faceva saltare per aria una serie di schemi. Ricordo, per esempio, una canzone raccolta in Emilia che dice:
Scenderemo giù dai monti,
coi fucili sempre pronti,
e dei tedeschi da far scappà,
e dei fascisti da massacrà
Questo è lo spirito di tutta una parte della Resistenza, raccontata in modo giusto e corretto.
AC Hai citato Battaglia il quale, però, è stato uno dei pochi che nel suo libro parla di qualche canzone partigiana…
Sì, Battaglia aveva questa grande sensibilità e aveva capito che in realtà le canzoni permettevano di ricostruire parecchie cose. Io, nel mio libro, dico che sulla base del repertorio di una formazione si può capire chi fossero questi partigiani, se erano prevalentemente alpini, se erano gente che invece non aveva fatto ancora il servizio militare e veniva da qualche altra parte, se erano studenti; per esempio c’è un giro di canzoni goliardiche rifatte, rese partigiane. Cioè, le canzoni permettevano di fare un’indagine, diciamo sociologica, su quella che è stata la Resistenza.
AC Quindi non soltanto i partiti erano sordi a questo genere di cultura ma anche gli storici lo sono stati, in gran parte.
Sì, perché, purtroppo, ancora oggi non c’è in Italia una tradizione di storiografia non imbrigliata da partiti, da movimenti. Certo, uno storico si occupa delle cose che gli piacciono, che gli interessano, e siccome è uno che vive in una società, e quindi ha una sua posizione politica, sarà portato a interpretare, a interessarsi di certe cose piuttosto che di altre.
Ma raccontarsi la favola della cicogna tutte le volte che si fa una cosa perché in quel momento non va bene con la storia – cioè con la politica contingente di questo o di quel partito – è una follia; allora, veramente, la storia non conta più niente, diventa semplicemente un ingrediente di una politica del momento, no? Questa, secondo me, non si chiama storia, si chiama propaganda.
AC Vuoi parlare dell’origine di Fischia il vento?
Fischia il vento per la verità non sono io a averla studiata, l’hanno studiata in Liguria, e comunque è un canto fatto da questo Felice Cascione che poi cadde combattendo quasi subito; è sull’aria di Katiuscia, una canzone sovietica. Anche lì, naturalmente, discussero, e questo ti dimostra che, comunque, le canzoni erano considerate importanti durante la Resistenza; discussero molto su due o tre parole che non funzionavano con quella che in quel momento era la direttiva dei raggruppamenti.
La cantarono un po’ tutti. Devo dirti che anche i cattolici cantarono Fischia il vento. Fenoglio, ad esempio, dice che è la più bella canzone: “Ah, loro – cioè i garibaldini – hanno questa canzone straordinaria e noi?“. Però, modificate le parole, rese più consone alle politiche dei raggruppamenti, Fischia il vento venne ripresa dai verdi piuttosto che dagli azzurri, venne cantata da tutti. Anche perchè, in quel momento, che una canzone avesse un’aria sovietica non aveva grande importanza: molti di questi uomini avevano fatto la campagna di Russia. Semmai, un’aria sovietica, era portatrice di altri significati. Poi c’erano anche canzoni come Armata Rossa, torrente d’acciaio che erano più legate al desiderio, che una parte dei partigiani aveva, di modificare drasticamente la realtà sociale italiana. Ma questo è un’altro discorso.
AC È singolare come, in tempo di guerra, con l’Italia occupata dai nazisti, e in un’epoca in cui non c’era ancora la televisione, nel giro di un anno Fischia il vento si diffonde così velocissimamente nei gruppi partigiani.
Sì, non solo nei gruppi partigiani, eh! Io ricordo che queste canzoni erano molto conosciute anche dalla popolazione la quale poi sapeva anche che non doveva cantarle pubblicamente perchè rischiava. Ricordo che c’era una donna che veniva dalla Valtellina e faceva i lavori domestici a casa di mia madre. Era una ragazza molto simpatica: questa sapeva tutta La Guardia Rossa, con tutte le parole. Io venivo da una famiglia dove questa canzone, naturalmente, non rientrava nelle cose di cui poteva occuparsi un bambino: quando, dopo la guerra, chiesi a mia madre di cantare questa canzone, lei disse: “Ah, non posso perchè è proibito“; aveva, cioè, il senso del pericolo. Però, quando la cantò la sapeva tutta… E a me colpì moltissimo questa canzone dove c’era l’asino che si cangia in leone, insomma, mi aveva colpito.
AC Ricordi quella strofa che ti ha cantato Roberto Leydi: “Neve e fango, la strada di Legnano…“ che lui disse di aver sentito a Milano nella primavera del ’45 sulla melodia di Fischia il vento?
Sì, Roberto sapeva questa strofa. Credo di averglielo anche chiesto. Però penso di aver ripreso queste parole, che Roberto aveva sentito cantare, da qualche suo lavoro scritto: “Neve e fango la strada di Legnano…“
AC “Neve e fango e sangue all’imbrunir, che c’è morto il ragazzo partigiano, che sognava il sol dell’avvenir”. Ah, Roberto l’ha scritta?
Sì, non ricordo dove, ma deve averla pubblicata da qualche parte, forse sulle note di copertina dei dischetti dei Canti della Resistenza italiana.
AC In ogni caso, la canzone più cantata durante la Resistenza, come dicevi, fu Fischia il vento…
Sì, sì, Fischia il vento era la canzone più cantata.
AC … però, oggi, Santoro in televisione canta Bella ciao.
Sì, Santoro canta Bella ciao. Bella ciao oggi diventa anche la canzone del movimento dei No global, no?, la canzone più conosciuta internazionalmente tra quelle italiane. Direi che la cantano tutti, Bella ciao. È una canzone che ha avuto una penetrazione internazionale come nessun’altra. Io ne ho qui delle versioni israeliane, cinesi, di tutto in po’.
Resta il fatto che però Bella ciao, durante la Resistenza, fu cantata pochissimo; fu cantata prevalentemente in Emilia, portata sù dal Centro Italia – il primo che studiò queste cose fu Alberto Cirese il quale ne trovò una versione a Terni – e poi dall’esercito badogliano che veniva sù. Qui arrivò, ma arrivò, se non in casi proprio sporadici, da persone che erano venute a conoscerla per canali strani, che non sono mai riuscito a determinare quanto sia vero e quanto non sia vero, come capita spesso in queste ricerche. Direi che non c’è una prova attendibile che la canzone fosse conosciuta al Nord; può succedere che uno la conoscesse, però non era una canzone cantata.
Nell’ultimo periodo, poco prima dell’insurrezione, venne cantata in Lomellina. Non mi risulta che sia stata cantata in Valsesia; in Ossola c’è una testimonianza di uno che diceva: “Ah, sai, c’è una canzone nuova, nuovissima” però siamo già al diciannove-venti aprile (19-20 aprile 1945, ndr); questo l’ho trovato in un libro. Però siamo proprio agli ultimi momenti…
Bella ciao non fu la canzone della Resistenza. La canzone partigiana era Fischia il vento.
AC Perché, poi, prevalse Bella ciao?
Mah, Bella ciao cominciò a prevalere per alcuni motivi, intanto, direi formali: dal punto di vista musicale la canzone era spettacolare, c’era il battito delle mani che contò molto. Tutte le delegazioni che si recavano all’estero venivano invitate a cantare Bella ciao. Tieni conto che poi la melodia di Bella ciao era di largo uso centro-europeo, per cui l’aria era conosciuta.
Venne cantata per esempio dai russi nei campi di concentramento; ci sono delle prove che questa melodia era conosciuta anche all’Est. Poi si diffuse attraverso i convegni giovanili internazionali che allora venivano fatti frequentemente da parte del movimento comunista, il movimento della Pace, le delegazioni che si scambiavano.
Quello che veramente rese celebre Bella ciao fu il fatto che Yves Montand la riprese: però, questo, fino a un certo punto perché il testo di Montand è diverso, in parte, da quello poi cantato da tutti. Lo spettacolo Bella ciao del Sessantaquattro (1964, ndr) [1] fu certamente uno dei volani della popolarità della canzone. Ma, soprattutto, c’è il fatto che questa canzone, con l’appello per esempio all’invasore, senza il minimo discorso riguardante il fascismo, andava benissimo per tutti! Infatti, a un convegno della Democrazia Cristiana, a un certo momento fu cantata da Zaccagnini. Insomma, si potrebbe fare una storia di dove venne cantata in tutte le salse. E poi, il movimento No global, in quest’ultimo periodo, ne ha fatto una canzone simbolo.
Negli anni Sessanta diventa la canzone della Resistenza per le ragioni che ti dicevo: una grande invenzione di una tradizione, come anche è una invenzione della tradizione il fatto che i partigiani siano sempre stati sulla cresta dell’onda, perché invece vennero perseguitati mica da ridere durante il periodo scelbiano, no? Cioè, della popolarità della Resistenza in questo paese, ci sono degli alti e bassi. E comunque, Bella ciao oggi è “la” canzone della Resistenza. Tanto è vero che, come dicevi tu, siccome Santoro doveva resistere – cosa che mi fa sempre un po’ sorridere – cantò questa canzone.
AC Tu hai lavorato tantissimo su questa canzone, ricerche su ricerche…
Sì, quella è una storia lunga…
AC Tra l’altro, la storia di Bella ciao – o almeno, la storia delle ricerche che avete fatto su Bella ciao – si è un po’ incrociata anche alle vicende del Nuovo Canzoniere Italiano.
Sì, sì.
AC Come ricordi il lavoro di quegli anni su Bella ciao ?
Gianni Bosio era quello che più di tutti era interessato a Bella ciao, proprio perché la considerava una canzone con risvolti misteriosi: “Ma da dove viene fuori?“. Tieni conto che oggi sappiamo che un’altra versione è stata cantata durante la Prima guerra mondiale, ma ci siamo arrivati dopo anni, perchè non c’era nessuna prova di questo. Oggi i passaggi si possono vedere.
Non so se ti ricordi che andando alla ricerca di capire queste cose a un certo momento avevamo trovato una versione della vecchiarella con un ritornello che diceva: “La me dis ciao, la me fa ciao, la me dis ciao ciao ciao“. E ci arrampicavamo un po’ sui vetri per capire le connessioni. Chi trovò il bandolo della matassa, chi riuscì a trovare un tassello fondamentale fu una ricercatrice che si chiamava Estera Scarelli la quale a un certo momento trovò un Fior di tomba che era sulla medesima aria, proprio identica alla Bella ciao che viene cantata oggi. Lo trovò, mi pare, vicino a Parma, forse a Langhirano, cantata da una portinaia. Quello permise di dare una svolta.
Tra l’altro, ci fu anche il fatto che – un po’ ingenuamente come poteva succedere in quegli anni in cui eravamo certamente tutti meno scaltri di oggi – accadde a Roberto Leydi e Gianni Bosio quando si recarono da Giovanna Daffini. La Daffini cantò una canzone delle mondariso. Poi, essendosi resa conto – dai discorsi che facevano Bosio e Leydi – che loro cercavano soprattutto canzoni cantate durante il fascismo, e che più queste canzoni erano datate più potevano interessare a loro come elementi di resistenza, la Daffini disse immediatamente che quella canzone lei l’aveva cantata negli anni Trenta.
“Ah, la genesi di Bella ciao sta in un canto di monda che Giovanna Daffini conosce!”. In realtà Giovanna Daffini questa canzone l’aveva cantata per la prima volta nel Millenovecentocinquantadue (1952, ndr) – ci fu un dubbio della Daffini se era il Cinquantuno o il Cinquantadue – in uno spettacolo del teatro di massa. Questo suo compaesano, Vasco Scansani, cambiò le parole della Bella ciao partigiana – che conosceva e che aveva cantato in Emilia – e ne fece una versione da mondariso facendola cantare in uno spettacolo. Così nacque la Bella ciao delle mondine.
Sai benissimo cosa è successo. Questo ha creato un sacco di pasticci a noi. Intanto perché Vasco Scansani quando scoprì che questa Bella ciao veniva cantata in questo modo si risentì: si fece vivo e fece conoscere questa canzone in un momento cruciale: quando ci fu il fatto di Spoleto, al Festival dei Due Mondi, a causa di Gorizia, con l’accusa di aver inventato delle canzoni.
AC Perché?
Perché Menotti, direttore del Festival, ci aveva chiesto preventivamente di presentare il copione dello spettacolo; noi presentammo le canzoni. Ricordo che ci fu la richiesta di cambiare la parola di una canzone che riguardava la Lega: “Crumiri e padroni son tutti da ammazzare”. Quella parola lì, “ammazzare“, non andava bene e fu cambiata con un altro termine. Si era accettato un compromesso e il problema sembrava risolto.
Senonché, alla “prima” di Bella ciao, succede che Sandra Mantovani che avrebbe dovuto cantare O Gorizia tu sei maledetta nella versione che avevo trovato io a Novara da un vecchio partigiano – Ronfani, un vecchio comunista che aveva fatto la Prima guerra mondiale e la cui versione di Gorizia non aveva la strofa: “Traditori signori ufficiali che la guerra l’avete voluta, scannatori di carne vendute e rovina della gioventù” e quindi non c‘era nel testo consegnato a Menotti – succede, dicevo, che Sandra ha un abbassamento di voce e viene sostituita da Michele Straniero; il quale Michele, conoscendo la canzone con un altro testo, che aveva quella strofa, canta quella, suscitando un grande casino nel pubblico.
Già c’erano stati degli scontri verbali in teatro. La sensazione mia, a distanza di anni, è che Michele, vistosi già inizialmente attaccato – in sala c’era un clima non da ridere – abbia cantato volutamente quella strofa per creare fino in fondo lo scontro con il pubblico. Già prima, quando era stata cantata la canzone E per la strada gridavano i scioperanti, si era alzata una signora tutta impellicciata e aveva detto: “Io posseggo settecento braccianti, ma nessuno di loro dorme nelle stalle”. Al ché, uno che era lì vicino gridò: “Lei sogna, signora, di essere posseduta dai suoi braccianti”, eccetera. C’era Giorgio Bocca che da un palchetto diceva alcune cose e dal basso gli dicevano: “Paesano”, e lui diceva: “Onorato, sono di Cuneo”. Quindi, fu un momento particolarmente vivace!
Però, l’accusa fu: “Inventano le canzoni”. Nessuno credeva che quella strofa fosse autentica. La giocarono così, no? Per cui, quando Scansani saltò fuori a dire che quella canzone l’avevamo inventata noi, il terrore di essere nuovamente accusati di inventare le canzoni fu molto forte.
Infatti ci fu tutta un’operazione per far conoscere che le cose non stavano come aveva raccontato la Daffini, e come Bella ciao[2] finiva per certificare, iniziando lo spettacolo con la canzone delle mondariso e finendo con la versione partigiana.
Ancora oggi prevale l’idea che Bella ciao delle mondariso sia la capostipite di Bella ciao partigiana; è molto difficile modificare gli errori che puoi commettere e che mandi in giro.
AC Vuoi parlare ancora del canto sociale? E’ un tema di cui noi, della generazione più giovane, ce ne siamo occupati molto marginalmente.
Sì, ci sarebbero ancora tantissime cosa da fare tenuto conto che il canto sociale ha dei momenti di stasi, ma poi si riprende a seconda delle situazioni sociopolitiche, no? Per cui, ci sono anche dei lunghi periodi di latenza.
Il lavoro che si è svolto negli anni Sessanta e Settanta è stato molto incisivo, perché ancora oggi queste canzoni si cantano. Una delle cose che mi colpiva, che era spaventosa, è che quando nel Sessantadue (1962, ndr) cominciammo a fare queste ricerche, nessuno le cantava più queste canzoni, non le sentivi mai. Infatti, tutte le cose che abbiamo registrato in quel periodo, non sono mai dal vivo, in situazioni di movimento come può essere un corteo o durante una festa, sono tutte cose memorizzate. E la cosa mi colpiva parecchio perchè erano passati pochi anni da quando queste cose si cantavano. Questo, naturalmente, l’ho saputo dopo, facendo ricerche.
Il fatto che ancora oggi si cantino vuol dire che quel nostro lavoro è stato veramente incisivo, cioè siamo riusciti a dare a questo paese un repertorio di canto sociale che, quando abbiamo cominciato a fare questo lavoro, mancava. (…)
AC Ma cosa vi spinse a iniziare questo lavoro? In fondo, in Italia non c’era mai stata una tradizione di ricerca su questo patrimonio…
Mah, guarda, questo lo ha detto benissimo Roberto Leydi quando ha affermato che eravamo un po’ tutti alla ricerca di una patria. Potevamo identificarci in questo tipo di patria di marmo che ogni tanto continuano ad ammannirci? Eh, insomma! Puoi immedesimarti fino in fondo quando pensi alle parole di Fratelli d’Italia? Andiamo, non è serio, no? Cioè, a suo tempo poteva essere una canzone con un significato ma oggi mi pare che il contenuto di quell’inno non funzioni, no?
Mentre invece funzionano, soprattutto in questo periodo, l’inno abissino di Ulisse Barbieri che è contro il colonialismo, o persino l’Inno di Garibaldi: io che sono un po‘ vecchiotto lo sento più mio che non l‘Inno di Mameli.
Eravamo veramente alla ricerca di una patria popolare, come ha detto Roberto. Infatti, molti di noi erano amatori di jazz; io Roberto l’ho conosciuto in un club jazz nel Millenovecentocinquantasei – cinquantasette (1956-57, ndr), quindi molto prima di tutta la vicenda del Nuovo Canzoniere italiano, perchè lui girava a fare conferenze sul jazz e io ero la tessera numero quattro del Club Novara. Mio padre era stato un amatore di jazz, a me il jazz piaceva moltissimo, continua a piacermi. Ecco, eravamo alla ricerca di qualche cosa in cui poterci identificare, dovevamo trovare un’identità.
AC Visto che hai citato Roberto, ti vorrei chiedere una cosa – forse un po’ scontata ma ancora di grande interesse – di cui ho parlato anche con lui. Quale fu il motivo della scollatura all’interno del Nuovo Canzoniere Italiano?
Mah, il motivo sostanzialmente io l’ho raccontato nel libro Una storia cantata [3], che è la storia del Nuovo Canzoniere italiano, dal mio punto di vista. Non credo che sarebbe stato il punto di vista di Roberto perchè, certamente, quando si raccontano storie di cui si è stati protagonisti, la nostra memoria fa, diciamo, a pugni con le elaborazioni storiografiche di qualunque genere. Memoria e storia son proprio due cose diverse, no? Non smetterò mai di dirlo, questo.
Le ragioni furono… intanto che Roberto, secondo me, era più interessato alla ballata, a questo genere di cose; noi invece ci eravamo buttati dentro questa cosa perchè ne avevamo visto, sentito e capito il valore politico. Per noi il problema era quello di dare un repertorio a quella che allora chiamavamo classe, no? E quindi ci fu uno scontro con Roberto perchè secondo noi la strada che lui aveva preso era un po‘… Gianni Bosio diceva: “da piccola Scala”. Questa era la sua posizione. In realtà fummo trascinati anche da un grande litigio tra i due. Poi, come capita sempre, nei gruppi c’erano tante posizioni e siccome Roberto era anche molto esigente, giustamente, sul piano della qualità delle esecuzioni – io non vi ho sentito, ma immagino che avrebbe distrutto anche i Barabàn, no? – allora una serie di cantanti che non avevano nessuna intenzione di fare quello che veniva chiamato il ricalco ma volevano esprimersi in altre direzioni, si ribellarono. Dissero: “Noi in quella cosa li non ci riconosciamo, vogliamo fare altre cose”.
Si sommarono una serie di ragioni. Un’altra ragione molto grave fu il fatto che Roberto incettava tutto quello che era possibile pur essendo frutto della ricerca di tutti. Tutte queste registrazioni che avrebbero dovuto servire per creare l’archivio dell’Istituto Ernesto De Martino, allora nascente – qui parlo già del Sessantacinque (1965, ndr) – sparirono bellamente, non le abbiam più viste.
Io, per dirti, ho un rammarico dovuto al fatto che di due o tre nastri fatti da me con Roberto non ne ho copia. Li ha Roberto, capisci? Queste cose giocarono in quel momento, ci furono una serie di cose che finirono per creare questa frattura.
Però, credo – l‘ho sempre sostenuto – che la ragione principale fosse politica. Roberto in quel momento voleva andare in un’altra direzione. Questa fu la mia impressione, allora.
AC Mi sembra, però, che nell’ultimo periodo ci siano stati dei riavvicinamenti, soprattutto con te…
Ma io non ho mai avuto una rottura con Roberto sul piano personale! Certo, mi faceva impazzire quando per farmi restituire un canzioniere sociale, che per me era molto importante per le mie ricerche, ci ho impiegato ventidue anni! Ma, a parte questo, siamo sempre stati molto amici; anche perchè – ti devo dire – io sono tra quelli che ha ritenuto che questa rottura non fosse negativa, ma fosse positiva per entrambe i gruppi. Insomma, io credo che quando si rompe su vicende serie – per esempio lo specifico stilistico di cui allora si parlava era una cosa seria, si ruppe anche su problemi di carattere musicale – sia anche giusto rompere. Le scissioni, a volte, sono anche molto positive e valide.
Poi i rapporti, bah, potevano, forse, anche essere più sciolti. Purtroppo, quella scissione venne vissuta con toni così accesi un po’ da tutti, e con prolungamenti emotivi molto vivi, cosa che impedì che si potesse anche instaurare una maggiore collaborazione tra i due gruppi. Che pure ci fu, eh!
AC Al di là di questo, rimane che fu una stagione feconda…
Ah, non c’è dubbio.
AC Ancora oggi ci si rifà a quegli studi.
Sì, io non ho niente da rimproverarmi su questo piano. Devo dirti che rifarei, credo quasi tutto, se non proprio tutto quello che ho fatto. Anche proprio nella vita, no?
AC Cosa pensi, invece, di quelli che son venuti dopo e si sono messi a fare folk-revival in modo moderno, facendo anche ricerca?
Mah, non so se è più moderno, eh! Su questo avrei molte perplessità… Certamente i nostri gruppi sul piano strumentale erano quello che erano, no? Quindi un arricchimento della base strumentale, è positivo.
Oggi, io penso – lo pensavo anche allora – che ognuno possa eseguire queste cose nel modo che meglio gli aggrada, purché le cose vengano raccontate nel modo giusto. Cioè, se tu usi degli strumenti che sono al di fuori della tradizione popolare italiana lo dici e spieghi perchè lo fai.
Tu usi la ghironda, no? Se modifichi una canzone o se fondi due canzoni diverse in una sola, lo racconti; poi ognuno fa quello che vuole, il pubblico deciderà se il prodotto è buono o cattivo…
Devo dire che nel folk-revival c’è anche molto di cattivo, eh! Però c’è anche del buono.
Ti devo confessare che talvolta non resisto e, ogni tanto, quando ci sono gruppi di folk-revival che non conosco mi metto lì in piazza, quando suonano, e fingo di essere uno del paese che conosce quelle canzoni. E mi diverto da matti, no? Perchè mi prendono seriamente per il panettiere locale e mi chiedono delle cose, e ogni tanto mi diverto anche a non raccontargliele giuste.
AC Ti comporti un po’ come la Daffini…
Sì, faccio un pò come la Daffini. Sul folk-revival il discorso è, oggi, molto complesso. Noi lo rifiutammo anche allora, no? Però, oggi, io ho l’impressione che questi gruppi siano un po‘ la fine di un discorso, non l’inizio di un nuovo discorso, ecco. È un’impressione, però, eh? D’altra parte ti vorrei chiedere che cosa ha senso oggi?
AC Ma la domanda ha senso, forse, rispetto alla vostra storia e al folk-revival di allora.
È che non si possono riprodurre in situazioni economico-sociali così diverse delle cose… Però io seguo più attentamente di come posso averti dato l’impressione con queste tre battute, anche queste faccende. Ad esempio, sono poco convinto della bontà di certe trasmissioni radiofoniche. Non perchè siano brutte, per carità, ma il tutto mi lascia un po’ perplesso, non credo che sia così incisivo oggi. Insomma, il folk-revival aveva una grande importanza in Irlanda, perchè in Irlanda non era folk-revival, ecco.
AC Tornando a Bella ciao, sai che una volta, a fine Aprile, eravamo in una scuola Media a fare un concerto e a un certo punto i ragazzini si son messi a urlare: “Dai, fate ancora quella dei Modena, fate quella dei Modena!”.
Ah, ecco, sì, sì.
AC Per loro Bella ciao non è la canzone con quella storia di cui hai parlato prima. È un brano dei Modena City Ramblers!
Sì, sai, parlare di queste cose è sempre molto pericoloso, antipatico perchè poi possono anche essere mal capite. Però, certamente, oggi il cotè del sopravvivere, del commerciale, se vuoi, ha un peso molto superiore che ai nostri tempi Ecco, questo va anche considerato.
AC Forse il problema è proprio di comunicazione, di modi di comunicare. Il problema non è dei Modena che fanno il loro lavoro ma che, come sempre, passano i messaggi comunicati in modo più semplice, spicciolo. E spettacolare.
Eh, beh, certo. Tra l’altro, la differenza sostanziale è che allora noi avevamo un uditorio che tra dischi e spettacoli finiva per essere milioni di persone. Oggi non so se il folk-revival ha un simile impatto, sulla società italiana. Direi di no.
AC Questo è un altro grosso problema. Bene, io avrei finito. Ti posso riprendere mentre cammini?
Sì, sì volentieri. Posso camminare con le mani in tasca?
AC Puoi fare tutto quello che vuoi.
Il lago[4] è alto… Sai quante cose, su questo lago, volendo vederle, e sapendole. Per esempio in quella casa dall’altra parte, là, durante la Resistenza, il maggiore Holohan venne ucciso dal suo vicecomandante di missione, era una missione OSS. Conduceva male la missione, metteva a rischio i propri uomini: non sapevano cosa fare, l’han fatto fuori.
AC Che paese è, Pella?
No, Pella è più in là. Non ricordo come si chiama. Lassù, invece, si vede ancora un enorme Che Guevara sbiadito, è molto sbiadito e non si becca più, si vede a mala pena con un binocolo fortissimo. Era il classico Che fatto su una roccia. Si vedeva da tutto il lago.
AC Dipinto?
Dipinto, sì.
AC Chi l’ha fatto?
L’autore era un tale che noi tutti chiamavamo Pitur; era uno che dipingeva anche bene, però siccome aveva fatto l’imbianchino lo chiamavamo Al Pitur. Era un compagno e aveva fatto questo enorme Che Guevara. Poi, là, su quella chiesa c’era un campanaro che durante la Resistenza suonava Bandiera rossa, e da qui, da Orta, gli sparavano su…
[1] Lo spettacolo Bella ciao, un programma di canzoni popolari italiane di Roberto Leydi e Filippo Crivelli, con testi di Franco Fortini, andò in scena al Teatro Caio Melisso, di Spoleto (PG), dal 21 al 29 giugno 1964 nell’ambito del Festival dei Due Mondi.
[2] Si riferisce allo spettacolo di Leydi e Crivelli.
[3] Cesare Bermani, Una storia cantata. 1962-1997. Trentacinque anni di vita del Nuovo Canzoniere Italiano, Milano, Jaca Book-Istituto Ernesto de Martino, 1997.
[4] Lago d’Orta.