Roberto Ferrari, pifferaio. Tutto iniziò da un soprammobile

Intervista a Roberto Ferrari (pifferaio)
Menconico (PV), frazione Canova, 23 agosto 2003
a cura di Aurelio Citelli

Nel 2003, per la lavorazione del videodocumentario Le voci dei pifferai, Aurelio Citelli ha intervistato Roberto Ferrari Ferry (1965), pifferaio di Canova, frazione di Menconico (PV). Profondo conoscitore della montagna appenninica, della gente e della cultura materiale e immateriale locale, Roberto è stato fra i primi a collaborare alle ricerche intraprese nei primi anni Ottanta da Citelli e Giuliano Grasso nelle Quattro provincie. L’amore per la terra in cui è nato, vive e lavora, la conoscenza delle tradizioni locali e dei suonatori del passato, ne fanno un testimone prezioso per conoscere e comprendere le Quattro province.
Ferry è soprattutto un amico. Fin dai primi anni Ottanta, Citelli ha seguito le sue feste, ha intrapreso con lui appassionate discussioni fino a notte fonda, allestito spettacoli (come le Voci di Colleri, con Claudio Rolandi, Donata Pinti, Paolo Ronzio e lo stesso Citelli, nella Chiesa parrocchiale di Colleri), compiuto memorabili “tour” nelle osterie della Valle Trebbia con la complicità di Fabio Zanforlin. Dal 2004, condividono l’esperienza di Musiche selvagge.

Roberto Ferrari, durante l’intervisita. Canova, frazione di Menconico (PV), 2003.

AC. Nome, età e professione.

Mi chiamo Roberto Ferrari, ho trent’otto anni e di professione faccio l’imprenditore edile.

AC. Quando ti sei avvicinato alla musica da piffero? Puoi raccontare com’è nata questa passione?

Eh, la passione è nata in un modo un po’ strano! Quando avevo dieci anni mio padre ha comprato un piffero da un costruttore di Pej, Tambussi, e l’ha portato a casa. Praticamente doveva servire da soprammobile. Poi qualche volta ho provato con l’ancia, cosa usciva e ho visto che qualcosa usciva. Allora ho cominciato a suonare un po’ in casa, da solo. Dopo di che c’era un mio vicino che suonava la fisarmonica, abbiamo provato insieme ed è nata questa passione. Nel frattempo sono andato diverse volte a sentire vari pifferai, Ernesto Sala, il Rosso della val Trebbia e mi sono appassionato sempre di più. Più tardi ho cominciato a suonare prima con un fisarmonicista, poi con un altro, fino ad arrivare ai giorni nostri… La cosa è nata diciamo per un piffero comperato come soprammobile.

AC. Ma qualcuno della tua famiglia suonava?

No, no, nessuno suonava della mia famiglia. Assolutamente. Anzi, nei primi anni che suonavo addirittura i miei genitori mi dicevano di non farlo perché suonando il piffero, insomma, ci vuol parecchia pressione, allora si tende a gonfiare un po’ le guance… Mi dicevano di non farlo perché gli sembrava una cosa anche un po’ fuori moda. Allora si andava in giro con i primi registratori a registrare questi questi suonatori e poi a casa pian piano si riascoltava la cassetta e si cercava di imitarli.
Il suonatore che mi ha ispirato di più, anche perché ho avuto la fortuna di vederlo almeno una decina di volte sulle feste da ballo, è stato Ernesto Sala. Lo ricordo benissimo. Quando mio padre mi ha regalato questo piffero sono andato a sentirlo a Vallechiara, un paese qua vicino, e ricordo che ho sentito per la prima volta una Monferrina, e mi è piaciuto molto. Purtroppo in quel periodo quasi nessuno ballava questi balli. Era una serata praticamente quasi tutta da liscio. I primi ballerini che ho visto danzare i balli tradizionali li ho visti a Cegni in occasione del Carnevale Bianco, quando suonava Ernesto Sala.

AC. Quindi Ernesto lo hai anche registrato?

Sì, l’ho registrato perché, a parte qualcosa fatto dai ricercatori e dagli etnomusicologi come Bruno Pianta o Roberto Leydi, non esisteva documentazione sonora. Per cui si girava col registratore portatile e ricordo che Ernesto l’ho registrato anche al Carnevale Bianco: ed è stato quando ho provato a fare i primi pezzi del repertorio di musica antica, qualcosa che andava al di là dei valzer, delle polche e delle mazurche. E’ stato emozionante perché in quel momento mi son reso conto che stavo facendo qualcosa di più importante che non suonare ballo liscio: stavo lavorando su una tradizione che andava preservata, che doveva restare viva.

AC. Prima di allora non ti era mai venuta l’idea di suonare, magari la chitarra o il pianoforte?

No, no assolutamente. A parte l’esperienza del flauto di plastica a scuola, che non è che mi interessasse molto… va beh ero bambino, non ho mai pensato di suonare.

Roberto Ferrari e Giacomo Davio “Mini” a Sunadù, baleren canteren, San Martino di Varzi, 1987.
(foto di Paolo Ronzio)

AC. Quante serate facevi nei primi anni di attività?

Le prime volte che ho fatto qualche serata è stato all’età di quindici, sedici anni; facevamo quattro o cinque serate all’anno, ma non erano un gran che. Il fisarmonicista allora era Elio Buscaglia, di Cegni, che adesso abita a Fabbrica Curone. Sempre con lui poi siamo arrivati negli anni Ottanta, dove facevamo sessanta, settanta serate all’anno. Poi ho avuto un periodo di crisi, diciamo, anche voluta perché ho incominciato a prendere un po’ più seriamente il mio lavoro, mi sono sposato e ho diminuito un po’ questo questo ritmo con la musica. Poi con Buscaglia ho smesso di suonare e per un po’ di anni son rimasto fermo finché non ho trovato il fisarmonicista Claudio Rolandi, anche lui di questi posti (ora abita a Voghera), e con lui, ultimamente, abbiamo fatto delle cose abbastanza belle. E’ il fisarmonicista col quale suono tutt’ora.

AC. Adesso quante serate fai in un anno?

Adesso ne faccio poche: venti, venticinque.

AC. E’ un’attività che fai in aggiunta al tuo lavoro.

Sì, sì, ma è più una passione che un’attività! Le feste da ballo sono diminuite… forse perché i ballerini che praticano il ballo liscio, diciamo “scolastico”, non amano ballare col piffero. La cosa che fa piacere, oggi, è che ci sono tanti giovani che vogliono ballare i balli tradizionali.

AC. Tu sei stato – semplifico – uno della “terza” generazione, quella venuta dopo i suonatori storici come Ernesto, e dopo quella di Franco Brignoli, di “Bani” (ndr, Ettore Losini, 1951), delRosso” (ndr, Luigi Agnelli, 1930-2007). Hai iniziato a suonare quando la tradizione del piffero stava vivendo un momento difficile.

Sì, quando mi son messo a suonare io suonavano “Bani”, suonava ancora il Rosso, erano gli ultimi anni di Ernesto Sala e, come giovane, stava emergendo Stefano Valla. Qualche altro ragazzo della zona ha provato ma poi… niente, adesso non suonano più. Diciamo che sono stato uno dei pochi, forse insieme a “Bani” e a Valla, a riproporre questo strumento in un momento di crisi di questa musica.

Da sinistra: Fabio Zanforlin (musa), Roberto Ferrari (piffero) e Claudio Rolandi (fisamonica).

AC. Quant’era il cachét allora?

Allora si guadagnava più o meno sulle centomila lire a testa. Cento, centocinquanta, dipendeva un po’ da quanto si suonava. Se c’era una serata lunga magari si prendeva qualche soldo in più. Adesso si guadagna di più, anche centocinquanta euro a testa, ecco, dipende sempre dalle ore in cui devi suonare.

AC. E’ un bel guadagno, rispetto ad altri lavori!

Sì, ma è un guadagnare sudato… Adesso, spesso si vede gente in giro a fare piano-bar magari con una tastiera e un dischetto e prendono gli stessi soldi che prendiamo noi, però faticano molto meno. Senza nulla togliere a questi signori che suonano con queste pianole, eh! E comunque, ripeto, io lo faccio soprattutto per passione.

AC. Al di fuori di questa zona in quali situazioni hai suonato? So che sei stato in tournée negli Stati Uniti…

Nell’Ottantacinque e nell’Ottantotto, sono andato con Elio Buscaglia a suonare negli Stati Uniti per gli emigrati. Siamo stati a Detroit e in Canada, a Toronto, con grande soddisfazione perché faceva molto piacere vedere questi signori, proprio americani, che parlavano il nostro dialetto e facevano i nostri balli… E’ stata una cosa che mi ha commosso e nello stesso tempo mi ha reso felice.

AC. Ha commosso anche loro?

Ha commosso parecchio anche loro. Ho visto tantissima gente emozionata per non dire quasi piangere. C’erano anziani di ottant’anni o anche più che avevano sentito il piffero quando sono partiti per l’America – sono emigrati che erano bambini – e l’hanno risentito all’età di ottant’anni. E’ una cosa che avrebbe commosso chiunque. Per quegli immigrati era come sentire una parte di loro stessi, della loro cultura, qualcosa che avevano lasciato qua. E sentirlo là, in America, è stato per loro un momento davvero emozionante.
Poi, nel Millenovecentottantanove, insieme a “Bani”, Stefano Valla e a Fabrizio Ferrari siamo stati a suonare a Parigi per il Bicentenario della Rivoluzione Francese. Un mese prima siamo stati a Poiters a fare le prove per imparare questo pezzo che dovevamo suonare insieme a milleduecento suonatori. Avevamo un maestro che insegnava a noi e a tutti gli oboi presenti alla manifestazione. Poi abbiamo suonato a Parigi su Le Champe Eliseé, tutti quanti in marcia, questo plotone di musicisti, in maggior parte francesi ma anche di altre nazioni, un po’ da tutto il mondo. E’ stato un onore, per me, partecipare a questa cosa.

AC. Tra l’altro sembra che ci sia un legame tra la Rivoluzione Francese e il piffero, no? Si raccontano delle storie a questo proposito…

Sì, sì, queste storie le ho sentite. Ci sono diversi pezzi che ricordano qualcosa della Francia, come la Monferrina di Napoleone, oppure il Perigurdino che si dice venga dalla regione del Perigord, o la Carmagnola. Le arie di queste suonate ricordano parecchio, per quello che si dice, le suonate del periodo Napoleonico…

Domenico Balma “Camaradon” e quattro ragazze ballano la Giga. Monte Penice, anni Trenta.

AC. Ma tu che idea ti sei fatto sull’origine delle musiche da piffero più antiche come le monferrine?

Mah, effettivamente, potrebbero avere un origine lontana. Quello che ho pensato, quello che mi è stato detto da gente che le ha studiate, è che potrebbero essere simili a musiche francesi del Millesettecento, Milleottocento… però non saprei dire di preciso, bisognerebbe fare degli studi più approfonditi per sapere con esattezza la provenienza di queste suonate.

AC. Riesci a stimare il tuo repertorio? Quanti brani da piffero conosci?

Se devo dire la verità non li ho mai contati. Ne saprò cento, centoventi. Più o meno… poi dieci in più, dieci in meno.

AC. Che metodo usi per imparare le suonate?

Uso il registratore, lo facevo prima e lo faccio ancora adesso. Spesso la imparo prima sul flauto perché si fatica meno col fiato. Quando poi ho imparato bene l’impostazione delle dita passo al piffero e faccio il lavoro successivo che è quello dell’intonazione, del calibrare il fiato, degli abbellimenti.

AC. Questo ulteriore passaggio lo fai da solo o insieme al fisarmonicista?

Sì, col fisarmonicista: se c’è da limare qualcosa nella metrica, nel tempo, queste cose qua, le faccio con la fisarmonica. Poi, prima di eseguirlo in pubblico, occorre suonare il brano diverse volte per averne la padronanza.

AC. Preferisci i balli vecchi – gighe, monferrine, alessandrine – oppure i balli più moderni?

Io preferisco i balli di una volta. Ma ci sono dei valzer, delle polche o delle mazurche, diciamo arcaiche, che mi piacciono moltissimo, direi alla pari dei balli antichi.

AC. Sotto il profilo stilistico questi due differenti repertori richiedono un approccio diverso?

Io cerco di avere un mio stile, anche perché suono il piffero come piace a me, come lo sento io, per cui tento di avere uno stile personale. Passando dal repertorio vecchio a quello più recente, diciamo che non cambio stile… cerco di mantenere un’ impostazione mia, personale. Penso che ogni suonatore debba avere un proprio modo di suonare. Quando sento alcuni pifferai che cercano di imitare lo stile di altri non mi piace molto perché penso che bisognerebbe diversificarsi. Ognuno dovrebbe essere veramente se stesso nel suonare, con i propri difetti e i propri pregi.

Roberto Ferrari, Brallo di Pregola, 2005
(foto di Anna Lomazzi)

AC. Cosa pensi delle nuove composizioni per piffero?

Io non mi ci son mai messo, sinceramente non ho neppure tantissimo tempo per occuparmi di questo, però la cosa mi interessa. Spero in futuro di riuscire a fare qualcosa del genere. Penso che sia positivo, è una cosa che permette a una persona di esprimersi… Poi starà al pubblico dire se piace o meno. Però penso che siano positive queste innovazioni, assolutamente.

AC. E cosa pensi dell’uso delle nuove tecnologie applicate alla musica da piffero?

Io devo dire grazie alla tecnologia del registratore se ho imparato tante suonate per cui non vedo perché dovrei parlar male di chi utilizza il computer per studiare o rielaborare musiche. Quello che conta è lo scopo finale, per cui se uno utilizza la tecnologia per suonare meglio o comporre nuovi pezzi, ben venga.

AC. A quale suonatore del passato, o del presente, ti senti più legato, ti senti più vicino, anche dal punto di vista umano?

Come ho detto, il suonatore che ho ammirato di più, come suono, è stato Ernesto Sala. Purtroppo, Giacomo Sala “Jacmon” non l’ho sentito. A livello umano, come rapporti, diciamo, di amicizia, beh sicuramente apprezzo il giovane pifferaio Fabrizio Ferrari che tra l’altro abita qui al mio paese ed è un amico da una vita… beh, poi, Fabio Zanforlin: lui suona la musa, abita anche lui qua, vicino a me, e abbiamo sempre suonato insieme. Infatti il nostro gruppo era composto da fisarmonica, musa e piffero…  Io, comunque, ho buoni rapporti con tutti i suonatori: Stefano Valla, “Bani”, Marco Domenichetti, Stefanino Faravelli.

AC. Il tuo modello, sotto il profilo dello stile, comunque, è stato Ernesto?

Sì, sì. Il mio modello è stato sicuramente Ernesto Sala. Poi, non sono riuscito a fare esattamente come lui che è stato un maestro… anche perché, tra le altre cose, ci ha lasciato in eredità un repertorio vastissimo. Penso che tutti i suonatori di oggi abbiano lavorato sulle registrazioni di Ernesto.


AC. Qual’è stato, invece, a tuo giudizio, il suonatore che ha contribuito maggiormente a innovare il repertorio del piffero?

Io sono convinto che il piffero abbia avuto diverse fasi di rinnovamento: una importante, avvenuta nei primi decenni del secolo scorso, è stata quella realizzata da Giacomo Sala Jacmon. Lui ha avuto l’intelligenza di fare un cambiamento storico, quello di accoppiare il piffero alla fisarmonica. E’ noto che il piffero prima suonava con la musa ed è una cosa bellissima e stupenda, ancora adesso. Però, negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, Sessanta, la gente tendeva a preferire un altro tipo di suono, quello della fisarmonica, delle orchestrine da liscio. Allora Jacmon cos’ha fatto? Ha provato a suonare con la fisarmonica, ha visto che la cosa si poteva fare e piano piano ha abbandonato la musa. Questo processo può essere visto come il colpo di grazia per la musa ma io penso che non sia stato così. Tutto quello che abbiamo oggi – il repertorio, gli strumenti, le danze, le canzoni e tutta la cultura legata al piffero – lo dobbiamo a questa scelta di Jacmon. Diversamente, il piffero sarebbe scomparso. Per l’oggi, l’innovazione più grande è stata quella di reintrodurre la musa, anche se di preciso non si sa come suonasse perché nessun suonatore di musa è mai stato registrato. Fondamentale è stato anche il recupero dei balli tradizionali, specialmente delle suonate che si stavano perdendo. Questa è stata una grande innovazione.

AC. Questo, oltreché grazie al lavoro di documentazione fatto da Bruno Pianta, è stato fatto recuperando le registrazioni degli anni Sessanta e Settanta. Ricordo che anche tu mi hai dato registrazioni di Ernesto fatte in quegli anni. E’ stato un lavoro essenziale per ricostruire il repertorio.

E’ stato un lavoro fondamentale perché poi, a un certo punto, Ernesto per problemi di salute ha smesso di suonare e il discorso di andare in giro con il registratorino è venuto un po’ meno. A questo punto abbiamo cercato, specialmente io e Fabio Zanforlin, di informarci nelle varie valli, chiedendo all’osteria, parlando con qualcuno che cantava o era appassionato, domandando se avevano mai registrato oppure se conoscevano qualcuno che avesse registrazioni di Ernesto Sala. Così siamo riusciti a trovare diverse registrazioni che poi abbiamo clonato. Queste incisioni – tutte fatte durante feste – sono state molto utili specialmente sui pezzi di liscio antico, di ballabili perché risalgono agli anni Sessanta-Settanta, anni in cui, purtroppo, i balli più antichi stavano per essere abbandonati…

AC. D’altra parte la documentazione raccolta da Bruno Pianta è stata rivolta quasi esclusivamente ai balli antichi, oltre tutto non suonati durante le feste. Pianta, per sua stessa ammissione, si è dispiaciuto per non aver rivolto la sua attenzione anche al corpus di liscio. Tuttavia, il suo lavoro di documentazione è stato importantissimo. Cosa ne pensi?

Infatti. Noi siamo stati fortunati perché le due cose si sono un po’ compensate: c’è stato chi si è interessato solo ai balli antichi – le gighe, le monferrine, le piane, eccetera – come Bruno Pianta, Roberto Leydi e chi come noi e altri, invece, ha avuto la fortuna di trovare suonate di liscio “antico”. Un lavoro che, purtroppo, non è stato fatto, è una documentazione completa sui matrimoni, una registrazione anche visiva, magari, su riti come il carnevale o altri momenti dell’anno o della vita.
Però le registrazioni fatte da Pianta hanno aiutato molto perché se non ci fossero state non avremmo mai avuto occasione di sentire certi pezzi, ce li saremmo persi tutti quanti. E, forse, la parte più nobile del repertorio del piffero sarebbe inevitabilmente andata a morire, si sarebbe persa per sempre.

AC. Io rimango convinto che il lavoro di documentazione fatto negli anni Settanta-Ottanta dai ricercatori “urbani”, a partire da Pianta, sia stato essenziale. Eppure qualcuno ci ha visti quasi come dei saccheggiatori.

Io penso che sia stata una grande cosa. Anche l’intervista che stiamo facendo adesso – non perché intervisti me – penso che sia una cosa che domani potrà essere utile a qualcuno.

AC. Dieci nomi di grandi pifferai del passato?

Allora: il Draghino del quale c’è tutta una storia. Piancerreto, il Brigiotto, Jacmon, Lagé, il Rosso. Gli altri sono ancora tutti viventi. Se ne ho dimenticato qualcuno, pazienza!

Da sinistra: Roberto Ferrari, Marco Domenichetti e Cesare Campanini in concerto con Musiche selvagge, Varzi PV, 2015 (foto di Diego Ronzio)

AC. Conoscerai la storia della “chiave” che viene tramandata, dal Draghino a Pianserejo e così via… Qual’è il senso di questa storia?

Probabilmente ha un significato. Qualcuno l’ha vista come una chiave, una grossa chiave delle porte di una volta. Secondo me la “chiave” era una cosa simbolica che veniva data al miglior suonatore del momento. Per cui quando moriva un grande suonatore, questo la passava automaticamente a un altro. Per “chiave” credo si intenda questo, almeno spero perché ne ho sentite di tutti i colori: che era un segreto che si passavano nell’orecchio sul letto in punto di morte, tra un suonatore e l’altro…

AC. E adesso dove è finita la “chiave”?

La “chiave” non so dove è finita. Probabilmente, boh, magari è rimasta a Cegni, magari non è più a Cegni è a Bobbio… non so dove è finita (sorridendo).

AC. Qualcuno ha affermato che qualche suonatore se l’è portata nella tomba.

Secondo me la “chiave” non esisteva e il suonatore non può essersela portata nella tomba perché bravi suonatori ce ne sono anche adesso per cui credo che qualcuno ce l’avrà questa “chiave”, eh! Penso proprio di non essere io, però qualcuno ce l’avrà questa “chiave”!

AC. A te piacerebbe averla?

Penso che piacerebbe a chiunque.

AC. Se tu dovessi raccontare una storia legata al piffero, un aneddoto, cosa ti verrebbe in mente?

Ma di storie ce ne sono tante, e belle, sul piffero. C’è la bellissima storia del Draghino che è stata quella che mi ha colpito di più… soprattutto quando me l’hanno raccontata. Ero giovane e ho detto: “Ma possibile che questo signore abbia fatto morire sette mogli di solletico, che sia stato ricercato per così tanto tempo”?

AC. La puoi raccontare?

Ma tu la conosci! Dunque, si dice che questo suonatore, il Draghino, che abitava a Suzzi, paese dell’alta val Boreca, avesse dei poteri paranormali: qua dicono che era uno strion, uno di quei personaggi che facevano guarire dalla malattie. Oltre a questo suonava il piffero e probabilmente era anche un bell’uomo e stava bene economicamente. Dopo essersi sposato, ben presto si è stancato della moglie e per farla morire dicono che l’abbia legata al letto e l’abbia fatta morire di solletico con una piuma. Questo con sette diverse mogli! Dopo di che è stato scoperto perché… una volta, due, tre ma poi quando sono sette, insomma. Così è stato seguito dai gendarmi per i monti. Lui nel frattempo, siccome aveva questi poteri paranormali, andava a suonare ugualmente. Aveva le guardie del corpo: ad ogni uscita del posto in cui suonava aveva due persone davanti alla porta, due alla finestra, e se questi scorgevano i gendarmi arrivare lui scappava da un’altra porta. Dopo qualche anno è stato catturato, di preciso non ho ancora capito dove: alcuni dicono sull’Alessandrino, qualcuno dice in val Trebbia. Su questo, al tempo, è stata fatta una canzone dove si dice che è stato catturato a Cicagna, in Val Fontanabuona, e la canzone cita tutti i paesi che ha attraversato per essere condotto a Bobbio dove c’erano le carceri. La strana cosa è che questo uomo, nonostante le sette mogli, i poteri paranormali, gli omicidi, era ben voluto da tutti. Infatti, in ogni paese dove arrivava – accompagnato dai gendarmi – veniva compianto. Arrivato a Bobbio è stato rinchiuso nelle carceri e da lì è stato poi condotto a Milano. Questa è la storia come la conosco io.

Roberto Ferrari – quarto da sinistra – in concerto con Musiche selvagge. Varzi (PV), 2015.

AC. Quali sono le caratteristiche che tu apprezzi maggiormente in un fisarmonicista?

Beh, innanzi tutto la potenza perché un fisarmonicista che suona col piffero deve avere un certo brio, la ritmica e poi… beh, e che esca un qualcosa anche di dolce, di armonioso dallo strumento.

AC. E’ cambiato, secondo te, lo stile del piffero rispetto agli anni Settanta? E se sì, come?

Eh, lo stile del piffero è cambiato parecchio secondo me. Una volta c’era la distinzione tra il suono dei Piacentini, della val Trebbia e il suono di qua. Adesso c’è una nuova “scuola” che sta emergendo, un modo di suonare un poco più veloce, più ritmato e qualche suonatore adotta questo stile. E’ uno stile bello, qualcosa che fa piacere sentire.

AC. Ma qual’è la tua opinione sulla supposta esistenza di due “scuole”: cioè lo stile della valle Staffora – quello che si richiama alla “scuola” di Jacmon, Ernesto – e lo stile “Piacentino”? E’ una teoria fondata?

Secondo me questa teoria è nata recentemente e non è molto fondata: i suonatori si conoscevano anche in passato, giravano e si sentivano l’uno con l’altro; sentivano come suonava uno, come suonava l’altro, per cui lo stile secondo me è sempre stato un po’, come ho detto prima, una cosa personale.
Probabilmente qualcuno in val Trebbia ha cominciato a suonare in una certa maniera e i suoi “allievi” hanno continuato con questo modo.
Un po’ come succede adesso anche in valle Staffora: questi ragazzi che imparano suonano un po’ tutti uguali. Se all’inizio è inevitabile e anche giusto avere dei riferimenti, poi ognuno dovrebbe sforzarsi di avere un proprio stile, mettere qualcosa di personale. Qualcosa che, certo, si costruisce nel tempo, affinando sempre più la tecnica e conoscendo in modo sempre più approfondito il repertorio. Per esempio Fabrizio Ferrari ha uno stile diverso da tutti quanti, molto simile a quello di Ernesto Sala e penso che dei suonatori di oggi sia quello più vicino al suono del “Plon” (ndr, soprannome di Ernesto Sala). Penso che sia quello con il suono più antico e più originale di tutti. Questa è la mia opinione. Anche Gianfranco Brignoli Barbetta di Varzi – adesso ha smesso di suonare – aveva uno stile e un suono molto personale.

Ernesto Sala (foto di Ferdinando Scianna).

AC. Pensi che la musica da piffero possa avere un futuro?

Mah, più che altro spero che questa tradizione rimanga viva, che ci sia sempre gente che si impegni per conservarla e innovarla. Confido che il futuro di questa tradizione possa essere buono perché vedo che chi lo fa, come ho detto prima, per professione ha parecchi impegni, parecchie serate, suona all’estero. Questo porta a un arricchimento, a una evoluzione dello stile e del repertorio. E’ positivo.

AC. Tu sei nato in questa terra e la conosci bene: come vedi l’identificazione fra queste valli e la musica da piffero?

La vedo un po’ come una cosa sola: io sono nato qua, suono il piffero e ho sempre pensato che il piffero faccia parte della cultura di questi posti, sia parte integrante della nostra tradizione. La sento un po’ come una cosa mia, o di chi suona, o di chi balla, o di chi viene da queste parti… è molto legata a questo territorio.

AC. Ma non credi che andrebbero fatti più sforzi per valorizzare e promuovere questa cultura musicale?

Sì, bisognerebbe fare di più. Andrebbe fatto di più da parte degli enti preposti alla valorizzazione delle culture locali. Per quello che so è una delle poche realtà in Italia, vivente, con uno strumento particolare, con un repertorio così vasto, per cui credo che occorra fare di più per farla conoscere e preservarla, pur nel cambiamento dovuto ai tempi…

AC. Come credi che sia cambiata la figura del pifferai oggi rispetto al passato?

Credo che una volta la figura del pifferaio sia stata più al centro dell’attenzione della comunità: il pifferaio era il suonatore, l’era el sunadù. Era conosciuto da tutti perché la gente andava alle feste e ci andava in massa. “Quello è tal dei tali, quello è Jacmon, quello è Brigiotto…”. Adesso, è cambiato un po’ tutto per cui il pifferaio è meno riconosciuito come una figura importante della comunità. E’ conosciuto e apprezzato solo dai veri appassionati. Poi, certo, quando vado a suonare, quando sei lì che suoni a una festa, ti senti un personaggio, e questa è una cosa che fa piacere.

AC. Tu che piffero suoni?

Io suono un piffero di Cicagna, un piffero che ho recuperato a Corbesassi, una frazione di Brallo di Pregola. Era di un certo Dino che non potendo più suonare per motivi di salute, quando m’ha detto che aveva questo piffero gli ho chiesto se lo vendeva, mi risposto: “Sì, guarda, lo vendo volentieri perché visto che è un piffero che suona bene, se qualcuno lo suona per me è meglio”. Allora l’ho acquistato. Poi l’ho un po’ restaurato perché aveva qualche problema. Io ho sette pifferi, di diversi costruttori, però questo è quello che mi da più soddisfazione, che mi piace di più come suono.

AC. C’è molta differenza tra uno strumento e l’altro?

Sì, c’è molta diversità. Talvolta anche i pifferi dello stesso costruttore, presentano differenze. Ogni strumento è una cosa a sé, forse per come viene lavorato, forato… Insomma, ci sono pifferi buoni e pifferi meno buoni. Poi i costruttori di adesso li conosciamo: qui in zona c’è Ettore Losini Bani. Ultimamente Stefano Valla ha fatto costruire dei pifferi in Francia: tutti ottimi strumenti, senza dubbio.

AC. E invece il flauto che usi per imparare i brani?

E’ un flauto in bosso, me l’ha costruito Bani. E’ in Sol, come il piffero.

AC. Dove sarai prossimamnte a suonare?

Questa sera suoniamo a Cicogni, in provincia di Piacenza.

AC. Lì però non si fanno balli antichi.

Beh, poco, via! Nel Piacentino qualcuno che ricorda come venivano ballate queste danze c’è ancora. Qualche anziano ricorda che ballavano la giga e qualcuno nella zona del Piacentino mi ha anche fatto vedere come la ballavano. La ballavano molto più veloce, incrociando le gambe dietro. Adesso, poi, di ballerini ce ne sono parecchi. Sono giovani che hanno imparato negli ultimi anni. Ad ogni festa arrivano e ballano parecchio.

Ballo a Selvapiana, in val Curone (AL). (foto di Michele Arsura)

AC. I “bal da muntagné”, come li chiamava Mario Brignoli di Negruzzo, sono tornati?

Sì, hanno ripreso vigore, forse anche perché sono di moda. Tanta gente impara i balli francesi, i balli di altre regioni… Vengono fatti diversi stages, anche di balli delle Quattro province per cui tanta gente di città li ha imparati e la cosa fa piacere. E’ positivo che vi sia questo ritorno di interesse per le danze antiche.