Leydi, il monello dell’altra musica

Massimo Cecconi recensisce su Foglieviaggi il volume “Roberto Leydi. Il ‘monello’ che ci fece scoprire l’altra musica, di Aurelio Citelli, pubblicato da ACB.

di Massimo Cecconi

Roberto Leydi, chi? Malauguratamente questa domanda non la si può più rivolgere a Umberto Eco o a Dario Fo e persino a Mike Bongiorno. Loro sì che avrebbero saputo rispondere più che appropriatamente, come tutti coloro che lo hanno conosciuto e hanno studiato sui suoi testi e che concordano nel ricordarlo come un intellettuale a tutto tondo, appassionato di parole e di musica, che aveva dedicato gran parte della sua vita a studiare e diffondere la cultura popolare.

A vent’anni dalla scomparsa Roberto Leydi, etnomusicologo docente, giornalista, saggista, conduttore di programmi televisivi e radiofonici viene dedicato, a cura di Aurelio Citelli, un esauriente saggio che offre un ampio quadro della personalità dello studioso che, con il suo lavoro e la sua ricerca, ha sicuramente contribuito a cogliere le trasformazioni sociali e politiche del nostro Paese. Aurelio Citelli, a sua volta ricercatore ed eccellente interprete di musiche tradizionali, prende spunto da un documentario – “Roberto Leydi. L’altra musica” (1996-2004) – di cui è anche autore, nel quale aveva raccolto una lunga testimonianza di Leydi stesso nonché contributi di Umberto Eco, Ferdinando Scianna, Bruno Pianta e Moni Ovadia che con lui hanno lavorato e collaborato.

Sandra Mantovani e Roberto Leydi (foto Ferdinando Scianna, per gentile concessione dell’autore)

Dalle pagine del libro esce una personalità poliedrica (si deve a Eco l’epiteto “monello”) che ha lasciato un patrimonio immenso di pensiero e di documenti nonché una raccolta pressoché unica di strumenti e oggetti della tradizione popolare. Completano l’opera preziose testimonianze di studiosi e operatori culturali che permettono di definire il carattere unico e per certi versi irripetibile dell’universo Leydi. L’ottimo lavoro di Citelli non solo rende merito a una delle personalità culturali più positive del nostro ‘900, ma permette di cogliere in tutti i suoi aspetti una vita dedita a conservare memoria, contro tutte le barbarie dei negazionismi vari. Dalle primissime esperienze al Terzo Programma della Radio RAI, da quando è stato varato nell’ottobre 1950, alla scelta dei candidati di Lascia o raddoppia?, le attività professionali di Roberto Leydi si caratterizzano subito per originalità e ricercatezza. Per non tacere delle collaborazioni, in qualità di critico musicale, con l’Avanti e l’impiego alla casa editrice musicale Suvini e Zerboni, sotto la diretta direzione di Ladislao Sugar, per approdare poi in qualità di giornalista al settimanale L’Europeo.

Roberto Leydi durante le riprese del video ‘L’altra musica’, Orta San Giulio NO, 1996 (foto da video di Renato Minotti)

Nel fermento degli anni ’50, Leydi stringe rapporti di amicizia e di collaborazione con alcune delle personalità più interessanti dell’epoca quali Umberto Eco, Luciano Berio, Bruno Maderna, Ferdinando Scianna con cui condivide progetti e passioni. Non secondarie le sue attività di insegnante sia presso la Civica Scuola d’Arte Drammatica di Milano sia presso il DAMS di Bologna dove detiene, dal 1972 sino alla morte, la cattedra di Etnomusicologia. Nell’immediato dopoguerra inizia a occuparsi di musica contemporanea e di jazz, per poi scoprire a metà degli anni ’50 del secolo scorso la musica popolare americana, apprezzando le ballate di Woody Guthrie o di Pete Seeger, cantori impegnati di un America minore, quella dei poveri e dei neri o della profonda provincia. Nel 1954 conosce Alain Lomax che era allora il massimo esperto di cultura popolare made in USA. Dai suoi insegnamenti Leydi trae lo spunto per intraprendere un percorso di ricerca e di studio che lo appassionerà per tutta la vita.

Le sue attività di ricercatore sul campo lo spingeranno a scovare nelle campagne o nei borghi i portatori di quella cultura che, prima di essere tradizionale, era comunque alternativa e spesso disubbidiente nei confronti della cultura ufficiale. La sua ricerca, che si sviluppa soprattutto nel nord d’Italia, va di pari passo con le attività editoriali e quelle organizzative. Nel 1964, in collaborazione con Filippo Crivelli, realizza ‘Bella ciao’, uno spettacolo destinato a essere presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto, una straordinaria raccolta di canti popolari che variano dal tema del lavoro a quello dell’amore o del divertimento, senza trascurare la natura politica e per certi versi eversiva dei canti sociali o contro la guerra.

Roberto Leydi nel suo studio di Orta San Giulio (NO) (foto di Nico Staiti)

In persuasiva sintesi, ecco il testo che compare sulla copertina del disco Bella ciao: “Qualche volta, dagli affreschi e dai quadri, i loro visi ci fissano. Ma dai libri quasi mai ne intendi la voce. Le loro generazioni hanno formato la lingua che parliamo, la sintassi dei nostri pensieri, l’orizzonte delle città, il presente. Ma la coscienza che anno dopo anno, mietitura dopo mietitura e pietra dopo pietra, essi formavano ai signori e ai padroni, quella coscienza non li riconosceva. Li ometteva. Confondeva le loro voci con quelle degli alberi o degli animali da cortile. Questi canti sono stati uditi – quando sono stati uditi – tutt’al più come voce di una cultura separata e arcaica; ma oggi sappiamo che essi esprimono un mondo di dominati in contestazione e in risposta”. Durante lo spettacolo, il durissimo testo di ‘O Gorizia tu sei maledetta’ (“Traditori signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta/ scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù”) viene contestato da una parte della platea, con uno strascico giudiziario per vilipendio delle Forze Armate. A proposito, annota Leydi: ” …le parole della canzone avevano, al massimo, funzionato come innesco. Era tutto lo spettacolo sgradito. Turbava. Anche quando erano canzoni d’amore, anche quando si parlava dell’uva fogarina. Era tutto lo spettacolo a dare fastidio. Ed è scoppiato lo scandalo”.

Era nato, anche grazie a Leydi, un movimento che voleva far conoscere e salvaguardare la cultura degli ultimi, degli oppressi se non anche degli oppositori. Le attività del Nuovo Canzoniere Italiano e l’apporto di artisti e ricercatori come Giovanna Marini, Ivan della Mea, Michele L. Straniero, Caterina Bueno, Paolo Pietrangeli e Sandra Mantovani, che è anche la moglie dello stesso Leydi, contribuiscono a diffondere una cultura prima ignorata e sottomessa, nascosta e negata. Accanto a loro si esibiscono autentici artisti popolari come Giovanna Daffini, il Gruppo Padano di Piàdena o i Tenores di Orgosolo. Sono anni audaci, ricchi di esperienze performative e innovative, di ricerca sociale e di contraddizioni. Sono anni in cui Roberto Leydi affina la sua missione di divulgatore attraverso decine di pubblicazioni e centinaia di incontri. Grazie alla Regione Lombardia, negli anni ‘70 dà vita all’Ufficio Cultura del Mondo Popolare che analizza a fondo le tradizioni del territorio di competenza attraverso saggi, fotografie e raccolte discografiche. Un lavoro immane che ha conservato sino a oggi un patrimonio che altrimenti sarebbe andato perso. Sostiene Leydi: “Chi canta bene e suona bene, non è mai uno stupido. Io non ho mai trovato un buon cantore o un buon suonatore che non fosse anche una persona molto intelligente. Gli stupidi cantano male”.